Altre Narratività
L’incantesimo della Billellera
di Carolina Cutolo / 24 novembre
Non devo parlare. Posso dire di sì o di no con la testa. Se mi chiedono quanti anni ho posso ancora usare le dita. Se mi chiedono di chi sono figlia posso dire i cognomi dei miei nonni: Murino e Zentile, li ho sentiti pronunciare solo da sardi quindi la dizione giusta mi viene quasi naturale, non dovrei destare sospetti. Ma a volte non bastano neanche tutte queste cautele. Appena mi identificano come l’unica nipote femmina di mastro Fortunato è finita, e cominciano a farmi il verso, parlandomi con una cadenza romana improbabile, ma a loro tutto è concesso, giocano in casa. Io invece, che vengo qui tre mesi l’anno da quando sono nata, sono e sarò sempre quella strana, quella forestiera, che arriva da una città gigantesca, inconcepibile e soprattutto, il peggior aggettivo che un sardo possa attribuire, continentale. Del tutto inutile imparare come e meglio degli altri bambini ad ammazzare le mosche con l’elastico, a impennare con la bicicletta, a mangiare gli asprissimi gambi di “agrittu”, i fiori del trifoglio, e altre amenità da piccola greffa locale. Semplicemente patetici i miei tentativi di imitare l’accento di Sorso, il paese di mia madre, ancora più ostico del già impossibile sassarese.
In fondo volevo solo essere come tutti gli altri bambini, confondermi con loro, dimenticare da dove venivo e concentrarmi sui giochi.
Un giorno mio nonno, che tutti chiamavano mastro Fortunato perché era fabbro, e che in fondo era anche lui un po’ straniero a Sorso, essendo nato a Gairo, in Ogliastra, mi regalò un piccolo blocchetto per gli appunti e una matita: «Così quello che vuoi dire lo scrivi». Ci ho provato per qualche giorno, ma non ha funzionato, gli altri bambini mi ridevano in faccia e gli adulti mi inchiodavano alle mie responsabilità di persona parlante: «Ma mudda sei?», col risultato di farmi sentire doppiamente strana: romana e finta invalida. Ma ero lo stesso molto fiera di quel trucco che nonno Fortunato aveva escogitato solo per me, era un vero genio: aggiustava qualunque cosa, persino le biciclette dei bambini che non conoscevo, inventava per me storie pazzesche di giovani pastori o contadini che, intrappolati da potenti incantesimi, si salvano grazie alla loro intelligenza risolvendo enigmi impossibili; mi svegliavo volentieri all’alba per andare con lui a cercare lumache per le campagne intorno al paese dopo un acquazzone notturno, ed era il mio unico e solo eroe quando infilava le camere d’aria in una tinozza piena d’acqua per scoprire dove si nascondeva il buco da rattoppare.
La prima volta che mi portò a prendere l’acqua alla fonte della Billellera ero molto piccola e non sapevo niente della leggenda. Ma c’è stato un momento preciso, intorno ai dieci anni, in cui realizzai che la fontana stregata poteva essere la svolta che mi avrebbe salvata dall’incubo della diversità. Quel giorno andai con nonno a prendere l’acqua con un’eccitazione nuova, c’ero già stata ma mi sembrava di vederla per la prima volta: una costruzione imponente, circondata da olmi secolari e da un acciottolato che scricchiolava a ogni passo, come per allertare la fonte che qualcuno si stava avvicinando, forse per abbeverarsi per la prima volta e quindi, per via dell’incantesimo della leggenda, diventare matto, come tutti i sorsesi. Mi sono avvicinata con solennità al bocchettone, pensando che bevendo direttamente alla fonte sarei diventata matta pure io, e sarei stata finalmente una sorsese tra i sorsesi, un’autentica “sussinca macca”, e che nessuno avrebbe mai più notato la differenza.
Dopo aver bevuto fino a non poterne più ho guardato mio nonno. Stava riempendo i bottiglioni da portare a casa. Quando si è accorto che lo fissavo con quella che doveva essere un’espressione molto seria, si è fermato, e mi ha guardata a sua volta. Gli ho chiesto se vedeva qualcosa di nuovo. Lui mi ha sorriso, e mi ha detto: «Bella di nonno tuo, ma tu sempre nuova, sempre diversa sei, in ogni momento, e guai mi’… guai se smetti!»