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“C’è un grande prato verde” a cura di Carlo D’Amicis

di Chiara Gulino / 27 novembre

Me lo ripeto ogni maledetto week end: ma chi me lo fa fare? Che senso ha prendersela tanto a cuore, palpitare, gioire, inveire, deprimersi per undici “leoni a volte un po’ coglioni” che corrono appreso a un pallone, profumatamente pagati, istoriati oltre ogni decenza e dalle creste strafottenti come solo i ragazzini di borgata sanno essere?

Eppure l’appartenenza alla squadra, la maglia, è più di una fede (non era forse Pasolini che considerava il calcio l’ultima sacra rappresentazione del nostro tempo?). È qualcosa  che non sapeva spiegare neppure Nick Horby in Febbre a 90°: «Il calcio ha significato troppo per me e continua a significare troppe cose. Dopo un po’ ti si mescola tutto in testa e non riesci più a capire se la vita è una merda perché lArsenal fa schifo o viceversa. Sono andato a vedere troppe partite, ho speso troppi soldi, mi sono incazzato per lArsenal quando avrei dovuto incazzarmi per altre cose, ho preteso troppo dalla gente che amo… Ok, va bene tutto, ma non lo so, forse è qualcosa che non puoi capire se non ci sei dentro. Come fai a capire quando mancano 3 minuti alla fine e stai 2-1 in una semifinale e ti guardi intorno e vedi tutte quelle facce, migliaia di facce, stravolte, tirate per la paura, la speranza, la tensione, tutti completamente persi senza nientaltro nella testa. E poi il fischio dellarbitro e tutti che impazziscono e in quei minuti che seguono tu sei al centro del mondo e il fatto che per te è così importante, che il casino che hai fatto è stato lelemento cruciale in tutto questo, rende la cosa speciale; perché sei stato decisivo come e quanto i giocatori e se tu non ci fossi stato a chi fregherebbe niente del calcio? E la cosa stupenda è che tutto questo si ripete continuamente, cè sempre unaltra stagione. Se perdi la finale di coppa in maggio puoi sempre aspettare il terzo turno in gennaio e che male cè in questo? Anzi è piuttosto confortante se ci pensi».

La prima volta allo stadio non si scorda. Alla fine delle scalette che conducono in curva è grande lo stupore davanti a quel grande prato verde.

C’è un grande prato verde non è solo l’incipit di una famosa canzone nazional-popolare, ma è ora anche il titolo di un libro polifonico curato dallo scrittore e conduttore radiofonico Carlo DAmicis, che ha dato mandato a 40 scrittori di commentare in presa diretta e senza rielaborazioni le giornate del campionato 2011-12. È il campionato di calcio italiano con i suoi scandali e polemiche, i suoi valzer di panchine e i suoi isterismi, i suoi anticipi e posticipi, spezzatino e contorni vari, visto da svariati punti di vista che si esprimono con toni e stili differenti. Tutti sono però più o meno accomunati dalla nostalgia per il calcio di una volta, poco visto e molto sentito, quello raccontato dalle voci di Tuttoilcalciominutoperminuto, quando i calciatori erano atleti e non attori, quando andare allo stadio con panino e caffè Borghetti era un rito e l’unico modo per vedere la tua squadra del cuore e nessuna tessera del tifoso c’era a scoraggiare o vietare le trasferte, quando gli spogliatoi erano un bunker inviolabile e non il confessionale di un reality in cui i nostri presunti eroi invece di preoccuparsi della partita si preoccupano del codino o di mettere in bella mostra l’ultimo tatuaggio. Era il calcio narrato dagli Arpino (Azzurro tenebra, 1977), dai Brera, dai Saba e dagli Acitelli, il calcio vero dei campetti di pozzolana dove poi magari pioveva, dove non batteva il sole e tanti Nino speravano di realizzare il sogno della loro vita mettendo il cuore dentro le scarpe e correndo più veloci del vento.

In C’è un grande prato verde c’è chi si sofferma sull’aspetto esistenziale del fenomeno calcio come Emanuele Trevi: «Così il calcio si ostina ad assomigliare alla vita, dove tutto è al tempo stesso prevedibile e imprevedibile. E dove si annida quel momento di bellezza e pienezza che potresti anche definire il momento più bello, a patto di accettare che assomiglia a tutti gli altri. Ma soprattutto a patto di ammettere che nessuna altra immagine della tua esistenza corrisponde al vero come questa, così distinta e slabbrata e priva di reali emozioni, che ti offre il dannato campionato di calcio», oppure Cosimo Argentina: «Il mondo andava avanti. Il mondo va sempre avanti e tu non sei che un frammento di poco conto nel bilancio dell’umanità che si ciba di sogni e di chimere. Gli eroi del calcio, dello sport, del palcoscenico e dell’arena sono palliativi per cercare di farcela». E poi c’è chi invece ne indaga l’aspetto sociologico come fa Antonio Rezza: «Il controllo sociale è ormai completo, si spostano negli stadi problemi che fuori sarebbero pericolosi per la viabilità, per la vita civile. Lo stadio finisce per essere un contenitore di gente illusa, frustrata, violenta, falsamente politica, strumentalizzata e superficiale. La protesta nei confronti dello stato si camuffa in passione incondizionata». C’è che manifesta il suo essere tifoso: «Seguire la Roma è una sofferenza, un incubo, una tortura. Si soffre prima, si soffre dopo, si spreca troppo tempo a soffrire, troppa parte della settimana a soffrire» (Matteo Nucci) e chi invece non nasconde la sua totale indifferenza e ignoranza pallonara come Pulsatilla: «Si sa, e l’ho sempre detto più volte, che l’analfabetismo calcistico ha solide basi genetiche (il cervello del maschio pesa 1.400 grammi e quello della femmina 1.200 ed è scientificamente appurato che nei duecento grammi di differenza ci sono i neuroni necessari a comprendere il fuorigioco), ma io sono un caso più grave […]. Non che ce l’abbia col calcio in particolare, intendiamoci, ce l’ho con la palla in generale. A me piace lo sport, solo che se c’è la palla non ci sono io. La palla mi affatica».

C’è chi assume la prospettiva del campione che gli anni costringono a una panchina sempre mal digerita come fa Elena Stancanelli mettendosi nei panni di Alex Del Piero: «Vedo i cartelli dei tifosi, mi vogliono bene. Il presidente qualche giorno fa, nipote della grande dinastia, ha detto che questo è il mio ultimo anno, che a giugno chiudo. L’ha detto, ha deciso per me […] e ora sono qui nel giaccone, mentre in campo giocano, corrono e la camera fissa me» e c’è chi invece non può che rimanere estasiato dal suo capitano di mille battaglie come Nucci: «…e poi vedo che Totti è tornato a giocare dove giocava mille anni fa, dietro le punte, è magro, corre, si muove bene, sembra un ragazzino […]. Mi pare Rivera, mi sembra di rivedere Rivera. […] Questo giocatore è un dio, penso […]. Questo è il giocatore che ha sempre sognato casa, che è sempre tornato a Roma, che per vent’anni ha sofferto il ritorno, altro che chiacchiere. Questo è l’unico vero epos che abbiamo in Italia […]. Questo è epos, signori. Questo è un dio. Solo Omero potrebbe raccontarlo».

C’è un grande prato verde è questa raccolta di emozioni e riflessioni. Il calcio ha sempre fatto e continuerà sempre a far parlare di sé nel bene e nel male, continuerà ad attirare folle magari ormai per lo più di pigri tifosi seduti in poltrona. Le mani inquiete si muovono alla ricerca infantile e spasmodica di un lieto fine nascosto, ma proprio come nella vita il sogno si infrange su una barriera, forse posizionata male o forse  non rispettosa delle consegne del portiere. A volte basta poco, un pertugio, uno spiraglio e il goal lo prendi, anche se è l’ultimo minuto e pensavi di avere la vittoria in tasca. È vero si soffre, ma è proprio questa imperscrutabilità con cui agisce il Dio Pallone a far dire che la prossima volta andrà meglio e che a far cantare fino alla fine «che sarà, sarà…».


(Carlo De Amicis (a cura di), C’è un grande prato verde, Manni Editore 2012, pp. 232, euro 14)