Cinema
[TFF30] Quinta giornata del Torino Film Festival
di Nicola Altieri / 29 novembre
La pioggia imperversa ininterrotta su Torino e la cosa potrebbe anche incidere pericolosamente sulle scelte di programma, considerando gli spostamenti da zona Mole a zona Stazione Porta Nuova non esattamente immediati. Non ci si fa però spaventare e ci si bagna e non poco. Con risultati qualitativi neanche sempre all’altezza dell’umidità assorbita, ma quel che di bello c’è val bene un po’ d’acqua ed è il caso di Good Vibrations.
Belfast a cavallo degli anni ’70 e ’80, non il miglior posto dove vivere. Gente pronta a uccidere e distruggere una città in nome dell’appartenenza religiosa, bombe e pallottole come pane quotidiano, tanto da render strade e locali deserti. Eppure anche in una situazione così drammatica qualcuno non si dà per vinto ed inizia a sognare di cambiare le cose, non con la politica, non con il fuoco ma con la musica. Good Vibrations è la vera storia di Terry Hooley, strampalato dj irlandese che un bel giorno decise di pacificare le persone vendendogli musica nel bel mezzo di Great Victoria Street, la celeberrima “via delle bombe”. Appassionato di musica reggae, una sera quasi per caso in un vecchio locale scopre il punk e comprende che quella è la via per dare vita ad una alternativa possibile. Da lì inizierà a incidere dischi di band locali, organizzare concerti e promuovere quella musica in tutto il Regno Unito, portando al successo gli Undertones e al culto gli Outcast.
Opera di grana grossa ed emozioni forti, spreme ogni analogicità possibile da una pellicola dai toni caldi in cui sono impresse emozioni e passioni irrefrenabili. Raro esempio di film sulla musica con il tiro giusto, con la musica protagonista ma non assoluta, strumento e veicolo di vite alla ricerca di identità e libertà. Ascesa, caduta e risalita di un uomo, delle sue azioni ma soprattutto del suo spirito, la storia di una attitudine che abbatte barriere e unisce. Tutto genuinamente e dannatamente rock’n’roll. Uno dei migliori film visti in questo festival.
Meno appassionante, e segno di quanto oggi il Regno Unito sappia convincere ben più degli americani, è il successivo The Sessions.
Mark O’Brien è un poliomelitico non si dà per vinto e prova a vivere una vita normale, studiando, laureandosi e scrivendo articoli e poesie. Ma non basta, anche perché la sua vita realmente normale non potrà mai esserlo, dato che è costretto a vivere in un polmone d’acciaio e che è immobile dalla testa in giù. Un giorno si innamora di una una bella e giovane assistente e si dichiara, ma lei scappa via. Da qui il desiderio di scoprire e conoscere il sesso prima che sia troppo tardi. The Sessions è la storia dell’avvicinamento, delle nevrosi e delle paure legate al sesso da parte di chi non ha esperienza o non riesce a relazionarcisi serenamente. Pregio principale del film è il riuscire a trattare le problematiche inerenti il sesso quasi prescindendo dalla disabilità del protagonista, trattando patologie psicologiche potenzialmente appartenenti a chiunque. O’Brien, qui interpretato da un quasi irriconoscibile John Hawkes, si affida ad un “surrogato sessuale” per provare quel che da solo probabilmente non potrà mai, nonostante sia egli capace di dare ben più di quanto crede alle donne con cui entra in contatto.
Nonostante la tematica forte trattata con garbo e leggerezza,The Sessions soffre però dei principali difetti di un ormai prevedibile e abusato cinema indipendente americano a uso e consumo del Sundance Film Festival, desideroso di sospendersi tra sorriso e pianto più per esigenza che per scelta, non riuscendo mai a raggiungere la densità e l’intensità necessaria. Un buon film incapace però di segnare e commuovere quanto potrebbe.
La pioggia nel frattempo sembra dare un po’ di tregua, ne approfittiamo per spostarci di sala. La tregua però dura poco e ci si bagna un bel po’ e in tal senso l’ambientazione interamente al coperto del film successivo pare quasi una presa in giro.
Noto ai più come attore di serie tv, tra tutte Big Love e American Horror Story, e di cinema per quel gioiellino che fu The Last Days Of Disco, Matt Ross realizza il suo primo lungometraggio e sceglie una via impervia. 28 Motel Rooms, come da titolo, è interamente ambientato in camere d’albergo, luoghi dove i due unici protagonisti consumano quella che dapprima è una semplice e irrefrenabile passione ma che ben presto diviene amore. Amore sotterraneo perché i due coltivano parallelamente proprie storie ufficiali che crescono e si alimentano fino a raggiungere soglie difficilmente abbattibili.
Matt Ross coglie il segno nello scegliere i due attori su cui tutto si poggia, bravi perché estremamente espressivi, con smorfie e sorrisi abili più di tante parole a descrivere sentimenti ed emozioni. Parole però ve ne sono inevitabilmente molte in un film del genere che si inerpica nel voler raccontare e indagare le mille problematiche di un rapporto travolgente e indistruttibile seppur racchiuso e limitato. Parole non sempre al posto giusto e troppo poco inframmezzate da momenti di un lirismo visivo tutt’altro che trascurabile. Se solo il buon Ross avesse osato di più, facendo parlare le immagini e l’eros e l’affettività in esse contenute, il risultato sarebbe potuto essere ben migliore, cosi resta un lavoro con spunti di interesse ma tutt’atro che a bersaglio.
A conclusione di una giornata così giunge benedetta la sezione Rapporto Confidenziale, pullulante di thriller, horror e intrattenimento.
Altro esponente del nascente filone “Block-Movie”, l’irlandese Citadel è un interessante esempio di come il Regno Unito di questi tempi pulluli di autori in grado di creare un cinema di intrattenimento funzionale e personale.
Quartiere periferico in dismissione. Tutti fuggono via da una desolazione prossima a scenari post-bellici, i pochi che restano sono vittime di attacchi e violenza, come lo sventurato Tommy che, proprio a causa di un’aggressione, perde la moglie incinta subito dopo che ha dato alla luce la loro bambina. Un incidente che segna la psiche di Tommy, divenuto agorafobico e tendenzialmente psicotico, legato alla vita ormai solo dal desiderio di preservare la propria piccola. Il tentativo di lasciare quelle lande sub-urbane è spesso reso difficile dalle sue paure e da situazioni prossime a scenari da Distretto 13: brigate della morte di John Carpenter. Tutto è assai diverso da come sembra, però, e il film assume con equilibrio i tratti del soprannaturale dando vita ad una molteplicità di spunti e fusione di generi giostrati spesso con personalità e decisione. Molte le scene efficaci ad alto tasso di tensione, non meno però anche situazioni rivedibili e tirate via con eccessiva fretta, specie nella parte finale. Opera non riuscitissima, ma ennesima conferma della vitalità ed imprevedibilità del cinema di genere del Regno Unito.
Si torna a casa bagnati, tutto sommati felici e decisamente raffreddati, consapevoli che la giornata successiva sarà densa e pregna, tra un cubano, un egiziano, un ungherese e un belga.