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Libri

“La scoperta della lentezza” di Sten Nadolny

di Michele Lupo / 27 marzo

«Raccontare ha molto a che fare con il contare» dice Sten Nadolny nella prefazione del 2007 al suo romanzo, La scoperta delle lentezza, pubblicato nel 1983 e tradotto a suo tempo da Garzanti che ora lo fa uscire nella collana Narratori moderni. Sandro Veronesi lo ha definito una volta un «libro leggendario» – è di certo un romanzo notevole e leggendaria fu la vita del suo protagonista, l’esploratore inglese John Franklin (1786-1847).

Ora, come mimando la prudenza, la lentezza di messa a fuoco, la certosina meticolosità del personaggio, il narratore ne racconta la vicenda esistenziale con mirabile controllo, ordinata successione di frasi inemendabili ma capaci di incantare. Questa l’invenzione vera del libro: se il navigatore e militare che avrebbe comandato spedizioni (e battaglie navali) nell’Artico, in Australia, in Tasmania fino alla morte nel cosiddetto «passaggio a Nord-Ovest» sembra, oltre che precoce sognatore di avventure marinare, imberbe adolescente parecchio problematico, il suo sguardo sulle cose è del tutto speciale: nell’imbarazzante collezione di handicap in cui vive, spicca l’eccessiva, paralizzante lentezza che ne fa un emarginato preso doverosamente per i fondelli da tutti. Pare persino incapace di seguirlo con gli occhi, il movimento – eppure, ciò che nasce come problema da far ammattire il miglior insegnante di sostegno (e nel caso specifico, un padre che non riesce a tollerarlo) diventerà l’arma sorprendente che gli consentirà imprese memorabili anche nel fallimento.

Il narratore, con maniacale e assieme aerea meticolosità, costruisce la figura e la sua storia non banalmente accumulando dettagli ma lasciando percepire – senza peraltro mai nominarla (che mica è Roberto Vecchioni!) – la poesia quasi chapliniana del personaggio, tormentato dai suoi difetti, dalle angustie in cui lo gettano i suoi compagni di gioco («tardone!» gli urla il suo opposto Tom Barker) e infine addestrato a uno sguardo paradossalmente molto più acuto degli altri.

Ciò che più accende l’interesse del romanzo (di una bellezza a tratti voluttuosa, piena di humour), non è tanto il fatto che trattandosi di John Franklin conterrebbe in sé una biografia eccezionale (romanzesca appunto la serie di avventure che consentono all’uomo di ricavarsi un suo spazio nelle enciclopedie potendosi leggere ovunque, tant’è che il bizzarro inglese ha ispirato altre opere letterarie), ma che la lentezza (viste le premesse: a dieci anni non afferra  la palla che gli tirano i compagni, non sa infilare un bottone nell’asola, si rassegna a dire sì per evitare la figuraccia di chi non capisce cosa gli si dice) invece di paralizzarlo non solo gli fu d’aiuto nella sua vita, ma soprattutto gli concesse la capacità di percepire in un modo singolare cose, persone, situazioni. Di imparare a guardare, e a misurare, col tempo che ci voleva, nevvero, la nequizie di un mondo che cominciava invece a soccombere all’isteria della frenesia cieca.

Nadolny restituisce (o reinventa?) tutto ciò per una lettura di raro godimento. Peraltro, a sentire lo scrittore tedesco, egli molto dovrebbe al cinema che gli ha insegnato il lavoro con la percezione, «accelerata e rallentata». Chissà. Di sicuro, quando un personaggio straordinario trova un “interprete” altrettanto straordinario, ossia quando la letteratura modifica anche nel lettore la percezione delle cose, mi pare che essa ristabilisca un suo dimenticato primato.

(Sten Nadolny, La scoperta della lentezza, trad. di Giovanna Agabio, Garzanti, 2014,  pp. 343, euro 18,60)