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“L’amorosa figura” di Roberto Piumini

di Mario Massimo / 28 marzo

Pregevole, finissimo lavoro, questo L’amorosa figura (Skira, 2013), di Roberto Piumini: nella misura calibratissima e felice di un racconto cui non si potrebbe togliere una sola virgola, breve per quanto scandito in quattordici non capitoli, ma sequenze di sapiente sveltezza, la vicenda s’ingegna di ricreare, nello spazio della parola – e anzi, con più vittoriosa scommessa, proprio nel cuore della sua negazione, in un silenzio imposto per regola monastica – le ragioni, annidate nel profondo della carne e della mente, di un lacerto bruto di realtà dell’anno del Signore 1456: la fuga, dal convento di Santa Margherita a Prato in cui era stata più o meno forzata a monacarsi dal fratello, uomo di prepotenza e di ricchezza, della giovane Lucrezia Buti. Giovane, Lucrezia, di tale eletta bellezza, da essere stata scelta perché sulle sue venissero ricalcate le sembianze della Vergine Maria in un quadro del pittore Filippo Lippi; facile per altro, il Lippi, benché a sua volta monaco dell’ordine carmelitano, a cadere più che in tentazione per volti e corpi di femminile avvenenza. E di Filippo Lippi infatti la Buti divenne, dopo la fuga dal monastero, moglie con tutti i crismi, e coniugalmente gli diede il figlio Filippino, pittore poi di suo, di eccellenza, secondo alcuni, superiore a quella paterna.

Ma non sono questi prosaici sviluppi d’anagrafe a ingolosire la penna elegantissima di Piumini: l’ordinaria amministrazione matrimoniale non entra a far parte delle brevi, gaudiose pagine del racconto, che si limita invece a mettere in scena – dopo avervi fatto comparire il Lippi, e in atteggiamenti che ne tradiscono tutta l’umana debolezza per lo specialissimo modo in cui unicamente alla donna, fra le infinite creature del Signore, è concesso d’incarnare la Bellezza – dapprima il casuale incontro sotto una tettoia, per ripararsi durante un tremendo temporale, del pittore e di un suo meno dotato monaco e collega, con tre suore di Santa Margherita, una delle quali è, appunto, prima ancora che Lippi ne conosca il nome, la Buti. Ottenuto poi dal pittore il permesso dalla madre badessa del convento che la suora posi per lui (e sia pure, come si diceva sopra, non potendo, per divieto monastico, né questi rivolgerle parola, né lei a lui, in alcun modo, o perfino far cadere lo sguardo sul quadro che dalle sue sembianze sta nascendo), il racconto si sposta al muoversi degli occhi, dei pensieri nella mente stessa della giovane, e nulla più sappiamo, noi lettori, di quanto sta avvenendo in quella dell’incapricciato pittore: lo capiamo però, godibilissimamente, da tutto ciò che egli fa, o dice.

Da come aggira il voto parlando – il che non gli è minimamente vietato – alla più anziana e inamena suor Caterina che assiste a tutte le sedute di prova, o poi, sfruttando il fatto che la ragazza ha pratica di latino in quanto amanuense di austeri tomi di patristica, nell’imbastire un sapido, blasfemo alternarsi di sedicenti «litanie di San Macario» che altro non sono se non lodi della bellezza di lei, e, di lei, risposte; e infine (suprema furbizia, da riscuotere il plauso professionale del miglior Boccaccio), nel lasciare con un pretesto la ragazza sola nella stanza, in modo che essa finisca per dare sfogo alla femminilissima debolezza di vedere il proprio viso, come ormai da tre anni le è inibito dalla regola. E sarà la spinta decisiva al crollare dell’ultimo baluardo: poche ore dopo, la ragazza, e proprio «al mezzo di una pietosa obbedienza», scappa dal monastero, verso il luogo in cui la raggiungerà l’uomo che – chiude arguto il racconto, Piumini – ascolta la notizia della fuga «attento a fare quello che quasi come l’amore amava: la pittura».

E con la cristallina pittura di un quattrocentista (il Lippi padre o il figlio, il Botticelli, il Bellini, il Carpaccio: si scelga, qui, a proprio gusto) lo stile di Piumini rivaleggia più che alla pari, non solo per la freschezza dei colori, il dinamismo nitido del disegno, ma per la sbrigliata, efficacissima inventività del lessico, saporoso di impasti antichi e insieme brillante di attualissime vibrazioni, che fanno calare, su queste non molte decine di pagine, il segno benedetto della perfezione.

(Roberto Piumini, L’amorosa figura, Skira, 2013, pp. 80, euro 12)