Libri
“C’è posto tra gli indiani” di Alessio Dimartino
di Cristiana Saporito / 24 aprile
Marcello s’intende di punture. Le propina per guarire, le propina per uccidere. E quando si tratta di se stesso mescola gli scopi. Li miscela in vena, per sentirsi fluttuare.
Marcello è un veterinario. Eroinomane. Che aspetta la sera per iniettarsi un po’ di vento. Ma tra lui e la vertigine domestica s’infila un campanello, insistente come chi lo innesca. Un vecchio distinto con un cane in allegato. Quel cocker non gli spetta, non c’è nessun motivo per cui gli venga consegnato da un viso qualunque, mentre cercava solo di smacchiarsi dal mondo, eppure quell’uomo sostiene il contrario. C’è il suo indirizzo sul biglietto e il suo mestiere appeso fuori a sottoscrivere il permesso.
Si schiude così, tra le mura di casa, C’è posto tra gli indiani (Giulio Perrone Editore, 2014), il nuovo romanzo di Alessio Dimartino. Ma dopo poche pagine si sconfina voraci al di là della porta. Alcol e pastiglie non hanno fatto abbastanza. E Marcello decide di rimandare la fine. La procrastina, come si fa con le bollette.
Insieme a Bobo e alle sue zampe si tuffa dentro Roma, in una notte di strade innervate di tappe ricamate a mano. Dal tendone di largo Preneste si snoda un circo d’incontri allucinati, un dedalo di madonne psichedeliche, spacciatori arruffati, lacerti di kebab, personaggi sbucati dagli angoli come da una botola d’inconscio. Si susseguono un “prostituto” ingiallito oltre i denti, un’amica del liceo, appesantita e profumata, uno zingaro cresciuto tra troppe ferite per non voler azzannare ogni cosa, un padre ancora solcato dal lutto e poi tutto il resto. Un diorama di fantasmi fortuiti, di figure instabili, scalcinate come ombre sparse alla rinfusa. Ognuno ha perso qualcosa, compreso quello che non ha mai avuto. Un’occasione, un figlio, la speranza, la testa. Anche Marcello ha la sua falla. Un crepaccio rugoso in cui è piombata Silvia, la donna che non ha smesso di amare. E che stabilito di non amarlo più. Un eccesso di distanza in cui l’eroina si è insinuata al meglio, quando ancora erano insieme, camuffata in un borsone da piscina, tra la cuffia e le ciabatte. I ricordi pizzicano più delle siringhe, la sete di quel sesso combattuto, raggrumato di residui intorno al cuore e ogni scontro con gli altri, ogni casella in cui rimbalza è quasi un gioco di specchi, dove è difficile sancire chi sia più arreso. E comunque più sconfitto.
È una periferia sbavata quella di ogni sosta, cruda come coloro che la addensano. Ma a una periferia e ai suoi viandanti questo si può chiedere: fame, stanchezza, nostalgia, sporcizia, birra, insonnia, ma non compostezza. I cassetti rimangono aperti, anche quando piove e ci si impregna mani e piedi a camminarci sopra. Come fa Marcello, che una fermata dopo l’altra con Bobo al guinzaglio rintraccia bordi di passato: l’adolescenza e il tennis, il padre incenerito nello zaino, un amico svaporato troppo in fretta. Tutto ciò che gli appartiene, anche se lui non appartiene più a nulla, neanche a quei gironi in cui scivola stordito.
A fargli da contraltare fino all’epilogo, un’altra voce narrante, che ne sa più di quanto si possa pensare. Che lo spiega in controluce mentre Marcello si racconta quasi osservandosi da fuori.
Protagonista complicato, sghembo, ciondolante, fallito, visibilmente in disordine con ciò che lo riguarda. Eppure è un tossico sui generis. Metodico, imboscato tra gli altri mortali. Si droga una volta al giorno, lontano dai miasmi delle astinenze altrui.
Perché in questo caso l’eroina non la fa da padrona. Non c’è la sudditanza irresistibile che porta a deviare, come fa la Nikita di Devozione, romanzo straziante di Antonella Lattanzi. E non siamo nemmeno l'Oregon di James Fogle, nel turbine ossessivo e criminoso del suo Drugstore Cowboy , o nella Los Angeles di Tony O’Neil crivellata di overdose, vera e propria Sick City. Quella ritratta è la Roma schietta di ogni sera del Pigneto, dove gli scarti imbrattano l’asfalto, gli immigrati sono una maggioranza rumorosa, dove sbandare al bancone dopo il terzo giro etilico fa parte del week end. E Marcello si appoggia a ogni scenario, senza mai integrarsi e senza mai stridere. La dipendenza dal buco è un ingrediente della sua deriva, isolotto rancido di un arcipelago esteso. Al di là e al di qua di un ago.
Il linguaggio è mulatto, misto, contaminato, pieno di salti in alto e in basso. Di cadute e di rilanci. Il tour della lettura si brucia alla svelta, dentro i passi di Marcello. Ogni notte si fa vincere e si riprende a galleggiare. Finché qualche corrente non suoni il campanello.
(Alessio Dimartino, C’è posto tra gli indiani, Giulio Perrone Editore, 2014, pp. 192, euro 13)