Altre Narratività
15/ Sono
di admin / 2 giugno
176- Sono queste le regole del torneo: a turno una persona viene bendata, gli altri la baciano nel modo che ritengono più sensuale; io e Cesare, che non partecipiamo direttamente al gioco, segniamo i punteggi, da uno a dieci, che la persona prescelta assegna al bacio; quando il giro è terminato si conta chi ha più punti. E finisce la prima manche.
177- Si comincia. Siamo in cinquanta. Molti poliziotti. Molti del 5. Alcuni trans che ho invitato io e che abitano al piano di sopra nella vecchia casa di via Marco Aurelio. Padre Adrian. E poi amici di amici. Qualche tableau che è rimasto, un Cristo e un Adone, una Santa Caterina e una Madonna. I baci si moltiplicano e crescono. Io li osservo, divertito, quasi stupito perché non credevo ce ne fossero così tanti e diversi, strani e imprevedibili, dolci e impetuosi, violenti e trattenuti, morbidi e aggressivi, di gruppo e singoli, incerti e decisi, schiumosi e asciutti, piccoli e immensi, diretti e allusivi, di maschio e di femmina, penetranti e remissivi, infuocati e tiepidi, rumorosi e in silenzio, in fila per due e solitari, a morsi e di labbra, di lingua e secchi, succhiotti e lisci.
178- La macchina di Helene è una serra di fiati che escono, per parlare dopo mesi e mesi di silenzio, per baciare dopo infinite astensioni e desideri, per abbracciare, toccare, sentire, odorare, gustare. La condensa sui finestrini diventa una nebbia che separa dal mondo. Calore di corpi congiunti esce da pelle e da vestiti. Le parole lanciano nuvole di fumo bollente. «Vieni», dice Jessy. «Dove?» chiede Helene. «A casa». «No». «Vieni». «Non ancora». «Vieni». «Ho paura». «Vieni».
179- C’è un bacio lunghissimo, che parte dai polpacci e si avvita. Lo dà Loris a Matteo, un collega di Jessy, che ci sta e gli piace, benché non sappia chi lo stia baciando. L’effusione continua sopra i vestiti e sulle braccia nude, sul collo abbronzato e sulle orecchie si ferma ed entra e assaggia trasformandosi in lingua e labbra che lavorano. Esce e rimane sui bordi a salire e scendere. Arriva sul volto, sulle guance accaldate, sulle sopracciglia e sul naso. Gioca a disegnare di saliva la bocca prima di afferrarla. Lecca sui margini. Annuncia e si ritrae. Torna e fugge. Si insinua a una estremità e spinge con la punta di lingua senza insistere. Matteo ansima e chiede. Vuole. Ha bevuto molto. Sa di vino. Ride, sperando così che il bacio gli sia dato infine completo. Invece si nega. Ondivago su e giù, di lato e obliquo, soffiando aria calda che raddoppia il calore che provoca la lingua infissa che si sporge e invita e rimanda infinite volte in un’altalena che Loris controlla, perfetto, e che Matteo, pensando, chissà, a una bella ragazza, subisce, annientato e sottomesso. Guardo i suoi pantaloni gonfi. «Dieci», dichiara quando dico: «Tempo scaduto». Punteggio massimo.
180- Mauro è qui. Sta a lui baciare. Mi lancia uno sguardo timido. «Vai», gli dico. Inizia a baciare mantenendo il contatto visivo con me, quasi chiedendo, a ogni evoluzione del suo bacio, il mio consenso, oppure offrendo a me la sua bocca quasi dicesse: Bacio te. Il suo bacio è diverso. Timido di vergine che prova e tenta. Prende le mani, da una parte e dall’altra, tocca le dita contandole e annuendo. È in ginocchio, preghiera profana di un martire folle. Sono agitato, pensando che sarà mio, stanotte, o meglio, stamattina, perché è l’alba. Nei suoi occhi fissi su di me intuisco il desiderio di baciare me. «Sei», dice Matteo mentre io gli sussurro: «Dieci».
181- Devono raccontarsi i dolori che provarono e i pensieri che ebbero. Jessy e Helene dicono: «Mai più». Si ritrovano, l’una come calco dell’altra, l’una che si adatta solo all’altra. Odori e profumi sono gli stessi di quando stavano insieme, impressi nella memoria e adesso riemersi. È un esilio terminato. «Ho preso la casa sapendo che ci saresti stata tu con me», dice Jessy. «Non sapevo se crederci», dice Helene. Gocce di umidità cadono dal tetto della macchina. L’aria interna è densa. Il finestrino viene aperto. In fondo il cielo si macchia di bianco e di rosa.
182- I baci si succedono ritmici e armoniosi. Di uomini e donne, uomini e uomini, donne e donne. Ora a quello ora a questo, con tempi sempre più sovrapposti e mescolati, nella realtà e in me e in Cesare che trascriviamo i punteggi sul quaderno e confondiamo, stanchi assonnati ubriachi, raggruppando insieme dentro un perverso magma erotico. Ci sono i baci dati in una striscia di saliva che è una coda di cometa, come Halley che aspettiamo di vedere, e già qualcuno, benché ubriaco, sussurra: «Arriva. Dicono che si vedrà all’alba». Ci sono baci che divorano, che vogliono mangiare e digerire, e insistono a ventosa aspirando, che estirpano l’anima. I baci alati sembrano miliardi di ali tenerissime che coprono e proteggono. Baci che attendono sui confini delle ascelle, sugli occhi chiusi. Baci in cui la bocca e le labbra e la lingua sono i terminali del corpo completo e tramite esse il corpo in ogni sua parte si fa sentire. Sono i baci indeterminati fatti anche e soprattutto di pressioni di gambe e braccia, di fianchi e inguine. Ce ne sono molti di baci così, che avvolgono. I baci di testa producono suoni che non sono parole ma bisbigli e gorgoglii, o singole lettere ripetute come un’ecolalia infantile.
183- I baci sono in massa e da soli. Figliano partorendo baci metà padre e metà madre e abbondano. I baci unici producono attese insoddisfatte. Baci ciechi e sordi, baci che soffiano e vedono. Baci animali e vegetali, di gasteropode, di gatto, di lepre, di felce, di rosa e di muschio. Baci nevrotici che non vogliono psicologie, baci razionali, e baci religiosi. Il bacio reverenziale e il bacio puttaniere. I baci che pretendono lingue in fuori e che duellano come in sfide d’onore. Baci con menzogne, che attirano per respingere e attirare di più. Baci volutamente inesperti che domandano istruzione, educazione, pazienza. Quando sono sadici i baci mordono a sangue, quando sono masochisti si riempiono di carne che soffoca. Baci retrogradi e anterogradi, copernicani e tolemaici.
184- Vedo baci creati con labbra estroverse, e baci che promettono e non mantengono perché il desiderio s’infebbri e la passione scoppi. O baci che tirano un pelo che strappano, e i baci che si appigliano alla bocca baciata per aprirla. I baci che uno solo ne vale un miliardo: mai avuto, mai assaporato, mai conosciuto. Baci che ricordati piacciono più di quanto piacquero al momento. Anamnesi nei sogni notturni e da svegli, i baci che tornano come zombie o come rigurgiti ma non uccidono né sono una indigestione. Sono piuttosto un marchio ossessivo. Sono i baci che una volta concessi si rincorre per tutta la vita.
185- Vince un ragazzo che si chiama Giovanni e che nessuno conosce. Come premio sarà baciato da noi, in gruppo, fino a stordirlo e poi darà a me e a Cesare un bacio, perché siamo i giudici.
186- Clara non segue il gioco. Parla con Adrian. «È innamorata», dico a Cesare. «Anch’io», mi dice stringendo Nicola. Mauro è con me. Io non sono innamorato. Lo bacio. Iride dice che è la festa più bella a cui abbia partecipato. Sento che Clara cita nomi di orchidee e Adrian l’ascolta fornendo consigli sulla fecondazione. Io vorrei una bella partenogenesi o un accoppiamento ermafrodita.
187- «Andiamo a vedere la nuvola del vulcano», dice Cesare.
188- «Andiamo a vedere la cometa Halley», dice Clara.
189- Ho preparato una serie di fuochi d’artificio. Nessuno lo sa. È una sorpresa. Andiamo nel frutteto e poi nel prato. Accendo una miccia che impiega dieci minuti per bruciare. Mi godo il momento in cui ci sarà l’esplosione. Siamo una ventina. «Mi preoccupa Jessy, nessuno sa dove sia finita», dico a Cesare che sorride pensando ad altro. «Vedrai che torna», dice Clara. E infatti ce la vediamo comparire, con Helene. Siamo contenti. I fuochi partono e disegnano nel cielo bianco-latte frecce arcobaleno. I riverberi colorano i nostri visi pallidi ma felici. Ameremo in questa casa; fin da oggi; ciascuno di noi con un uomo o una donna. Il piacere darà il battesimo giusto a Casa Ferrovia.
190- La festa è agli sgoccioli. Gli amici sono pochi. Noi guardiamo il cielo. «Eccola», dico io, «la nuvola del vulcano». Viene da nord, cresce in se stessa e si allarga, candida e gonfia. Non fa paura. «Di là», esclama e ordina Clara. C’è la cometa Halley da sud. Il sole sorge. La luna filigranata è ancora in cielo. La nuvola nasconde la cometa, il sole e la luna che, però, tornano presto, in una lotta che prosegue. Siamo attoniti e assonnati. Ci abbracciamo, con i nostri amanti veri o presunti, con i compagni di questo nuovo giorno.
191- Natalone e Iride se ne vanno e rimaniamo io con Mauro, Cesare con Nicola, Jessy con Helene, Clara con Adrian. Le prime a dare la buonanotte sono Jessy e Helene che poi si correggono e dicono: «Buongiorno». Si avviano mano nella mano, baciandosi con un sorriso sempiterno sulle labbra ammorbidite dall’amore. Cesare e Nicola dicono: «Ciao» e si allontanano senza parlare. Io osservo Mauro che si mangia le unghie. «Dormi qui?» chiedo. «Sì», risponde e non aggiunge niente. Gli poso un braccio sulla spalla e me lo porto via. Clara pensa: È un prete. È un prete. Se lo ripete mille volte. Adrian non aspetta che lei dica qualcosa. Sa dov’è la camera. Le carezza il viso. «Andiamo, piccola», dice.
192- Helene e Jessy sono in un discorso continuo che ora ha a che vedere con le stelle, dopo col polo nord e quindi con Parigi e Londra. Sono nude. I loro corpi sono sigillati. Quattro seni diventano due, due ventri uno, quattro gambe due, quattro occhi rimangono quattro e due bocche due per dare sfogo a ciò che non si erano dette e che ciascuna aveva detto solo a se stessa pensando all’altra. La velocità è maggiore della lingua e del fiato. Buttano fuori con urgenza e passione. Le parole si avvolgono ma non si sovrappongono, perché ognuna nasce dall’ascolto necessario. Non prevaricano. Si integrano. Generano quantità iperboliche di commenti e di gioia. «Ho voluto sempre te», dice Jessy. «Ho contato dieci milioni di pensieri uguali per te», dice Helene. Non si baciano neppure, perché altrimenti ritarderebbero le storie che raccontano. Ruotano come pianeti intorno a un sole, mentre la giornata passa e diviene ancora notte. Si affiancano in eclissi e congiunzioni, corpi celesti nonché terrestri che si conoscono attraverso moti di rivoluzione, parallassi, equinozi. Si capovolgono nelle evoluzioni cosmologiche e le loro parole sono logos che fa e disfa. «Ti ricordi?» dice Jessy e parla in libertà. «Ricordo», dice Helene. «E tu?» I dolori che furono, nella solitudine gelosa di entrambe, sono i piaceri nella memoria come un disastro vissuto con sofferenza è raccontato con gioia. Ridono rievocando le serate tristi, le cene malinconiche, le passeggiate e le lacrime involontarie. «In italiano ci sono sessantamila parole», dice Helene, «ce le siamo già dette tutte?» dice Jessy. «Sei vera?» aggiunge. «Ci sono sempre altri dizionari», dice Helene. «Io non sono come te e la tua famiglia che parlate decine di lingue», dice Jessy. «Ascolta me», dice Helene. «Che parlo per me e per te. Potremmo inventare una lingua nuova solo per noi che capiamo solo noi, fatta per le nostre emozioni». «Ho la gola secca», dice Jessy. «Baciami». Iniziano. Continuano. Perseverano.
193- Clara ha la camera blu e rossa. La sua pelle che non prende mai sole è bianca e luminosa. I suoi occhi celesti sono aperti benché forse non vogliano vedere, e invece guardano. Adrian dice: «Ti amo». È nero grafite. Le sue mani risaltano sul ventre di Clara su cui paiono ombre smaltate. Muovendosi entrambe, ma in direzione opposte, creano una scacchiera di maschio e femmina uniti. È un prete, si dice Clara. È male. È male. È male. Però tra le gambe ammorbidite sente il piacere che la riscalda e le arrossa il collo, le guance, le orecchie. È male. Adrian spinge con flessioni regolari, dal basso. Si ferma, sforza, va, bacia, carezza, conforta, sorride, ama. È male, nonostante il corpo le dica: Sto bene. Lo amo. Non devo, dovrebbe dirsi. Invece risponde avvicinandosi e contraendosi. Sono dita che hanno tenuto l’ostia. È bocca che l’ha mangiata e ha bevuto il vino, sangue e corpo di Cristo. Sono parole dette nella consacrazione e nel battesimo e in tutti i sacramenti. È la mano benedicente che fa il segno della croce. Clara vede e sa, pensa e tace. La delicatezza sacrale è la stessa. Il rito ripetuto da millenni, elegante e stilizzato. L’ostensione del calice, le braccia sollevate in alto, i paramenti e i panneggi armoniosi. Le formule che da San Pietro giungono fino a noi. Ite, missa est. È instancabile. Adrian. Nella reiterazione trova la completezza perfetta. È l’abitudine di sacerdote ai gesti calibrati che se cambiano si annullano e non sono efficaci, che, trasferiti su Clara e sull’amore, mescolano alla passione, generata da energie sottaciute e represse col celibato e la castità, il controllo infinito di manipolazioni delicate e di curvature imposte con atti decisi ma indolori o almeno che possiedono quella minima sofferenza indispensabile d’un attimo che sta nell’incastro che subito è piacere enorme. È male. Adrian ha i suoi muscoli neri nudi e velati appena di sudore. Nei suoi gemiti educati Clara sente liturgie di chiesa e di Dio. È male. È bene.
194- Jazz session. Improvvisazioni per corpi che suonano, amano, creano. Cesare e Nicola, distesi sul letto, si percepiscono in battute, toni e semitoni, ottave e pause. Si amano, senza rabbia e senza rete. Pizzicandosi come corde si danno piacere. Soffiandosi come flauti si prendono in bocca. Percuotendosi come tamburi si penetrano. La loro musica transita da fiato a fiato, da viscere e viscere. E parla di quanto si sono cercati, di quanto si sono fatti del male, di quanto non vollero capire, di cosa sono e saranno, e sarebbero e furono, di cosa hanno bisogno, di paure e incertezze, di quanto furono stupidi, di quanto tempo hanno perso, di quali incomprensioni crearono. Non ci sono parole, quasi che tutte le parole esistenti le avessero consumate Jessy e Helene, lì vicino, e fosse allora rimasto il suono armonico e docile di canzoni sempre originali e ogni volta necessariamente diverse e instabili. Cesare e Nicola si accordano, strumenti prima di un grande concerto. Si provano e si misurano, per evitare stonature. I sospiri e i baci non mancano e vanno di ottava in ottava calando o crescendo. Gravi e acuti. Lo sperma esce in un canto. I rumori del vento e dei rami e delle foglie dei platani entrano dalla finestra e dai muri in loro. Danno il Si bemolle e, diventando una carezza e una mano che entra, una lingua che si incolla, tornano fuori a eccitare il ronzio dei calabroni e il miao miao dei gatti. Gli orologi da polso, tolti e messi sul comodino, non segnano le ore che nessuno dei due saprà mai che sono state, e che saranno solo intervalli vuoti, come dal 4 ottobre al 15 ottobre 1582 con l’introduzione del calendario gregoriano.
195- Io non so: Ho sonno? Ho voglia? Mauro spia i miei movimenti. Apre la bocca, ma non parla. Sbadiglio in modo esagerato. Appena siamo soli lo bacio, lo tocco, lo lecco. Gli tolgo la camicia sfilandola dalla testa. Gli apro la cerniera e faccio cadere i suoi pantaloni a terra. Lui non si leva le scarpe e non reagisce. Rimane fermo con le braccia allentate sui fianchi, e con gli occhi sgranati, non per la sorpresa però. Sa cosa succederà e l’ha cercata. Mi viene da ridere a vederlo con le labbra socchiuse e i jeans afflosciati intorno alle caviglie. Ha calzini lunghi sotto il ginocchio. Blu. «Le scarpe», gli dico. Ne viene fuori sollevando i piedi, dopo essersi risvegliato dal torpore e dopo aver detto un debole sì. «I calzini», aggiungo. Li arrotola e li lancia lontano. Indossa un paio di boxer bianchi contornati di verde. Vedo il suo fiato, che gli arriva in gola con un sussulto lungo il collo, e che vorrebbe trasformasi in voce e parole. Giunge alla bocca che si muove e tace. Mi aspetto a ogni palpito che gli gonfia il viso che ci sia un discorso o un dire. Lui inspira fino in fondo, ma quest’aria non esce da nessuna parte e scompare nel suo stomaco che si riempie. Stringo i suoi capezzoli infreddoliti, mentre osservo le parole che non si formano benché siano sempre sul punto di farlo. Con la mano sfioro gli elastici dei suoi boxer aderenti. Infilo le dita sotto la stoffa. Mauro è immobile. Il suo torace è un mantice che non emette suoni che abbiano un significato. Sono stanco. Ho la tentazione di mettermi a dormire. Sono eccitato anche, e non potrei dormire così. «C’è qualcosa?» chiedo. «Non deve essere una tortura», dico. Allora le sue parole ci sono, prodotte con fatica e pudore: «Non l’ho mai fatto», dice. «Con un uomo?» «Né con uomo né con donna», dice. Mi sembra che pianga. La camera è in penombra. Lo copro con tutto me stesso. Gli carezzo le spalle. Lo avvolgo nelle lenzuola. Si piega di lato e sorride in modo incerto. Vado in bagno e mi spoglio. Rientro nudo e cammino verso di lui che mi guarda. Ho il sesso ingrossato di traverso. Raggiungo Mauro a letto. Facciamo un amore lento e indolore. Educo a sensazioni che genero con piccoli spostamenti naturali e spontanei; Mauro, turbato, li scopre e sente meraviglia. Io gli sono ovunque, così tanto che neppure lui capisce più dove termina e dove inizio io, se bacia me o bacia se stesso. Il suo pianto di prima è un ansimo di lussuria che mi dice sempre: «Fermati», quando non ce n’è più bisogno perché il piacere è già uscito. Il ciclo è rapido a riprodursi. Mauro è insaziabile. Io amo stimolarlo e tenerlo sospeso tra il piacere e le sue anticipazioni. Mi blocco dove centro un punto di erotismo. Lui si lascia andare provando il mio corpo insieme al suo. Impara presto e ne trae un rimbalzo di euforia sensuale. Da sponda a sponda, da corpo a corpo ci facciamo del bene. Poi Mauro torna a piangere lacrime che sono divenute di gioia insperata. Siamo in posizione speculare, distesi sul fianco, con le gambe disallineate, una avanti e una indietro. Allunghiamo le braccia senza prenderci. Sento un bussare flebile. Mi sollevo. «Chi è?» dico. Nessuno risponde. «Hai sentito?» chiedo a Mauro. «No», mi dice. «Mi sarò sbagliato», dico. Ma dopo pochi minuti il toc toc è reale e lo avverte anche Mauro. Senza aspettare che io dia il permesso, Leonardo si fa avanti e apre la porta. «Tu?» dico «Che ci fai qui?» «Mi sono addormentato», dice. Ci osserva incuriosito. I suoi occhi puntano Mauro che è nudo e non si copre. Io mi sono messo gli slip. Loro continuano a scambiarsi sguardi d’interesse. «Perché no», dico, e faccio segno a Leonardo di accomodarsi in mezzo a noi. Viene e si fa prendere dal sonno. Almeno sembra. Io e Mauro, facciamo l’amore sopra di lui che sembra dormire. Aggiunge un suo bacio al nostro che ora è a tre, e non solo il finché il sonno non ci coglie, spossati d’amore e di emozioni. Dormiamo. Io ho sogni e immagini. Lieti e liete. Mi sveglio riposato. Ho in testa, integrale, l’ultimo racconto di Sesso posteriore. Mi alzo, lasciando Mauro e Leonardo che, nel sonno, si sono abbracciati. Vado al Pc: «C’erano notti – in uno di quei tempi che, sebbene passati e in quanto tali, sono padri e madri dell’ora attuale e presente, nostra perché mia e tua uniti – che parevano giorni e anni nonché secoli e millenni…» Scrivo. Ce l’ho. Concludo: «Eravamo fatti della materia dei sogni, volatili e persistenti nello stesso modo». Il titolo è: «Notti circonvolute». Il libro è finito. Penso al lago Malawi dove vivono i ciclidi, che tengono in bocca i loro piccoli per proteggerli, e dove i moscerini quando nascono creano nuvole così spesse da sembrare nebbia fitta. Sento in me aria di viaggio, benché abbia appena inaugurato la nuova casa. Casa Ferrovia: giorno uno. L’altoparlante dice: «Accelerato dello ore zero è in partenza dal binario zero. Effettua tutte le fermate. Destinazione sconosciuta».
Foto: http://bit.ly/1hqMaml