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Libri

“La casa di Araucaíma” di Álvaro Mutis

di Daniele De Cristofaro / 17 giugno

Nella storia della letteratura non è insolito che un romanzo o un racconto, scritti per scommessa o condizionati da una scadenza improrogabile, si rivelino infine dei capolavori. Basti pensare a Il Giocatore di Dostoevskij o al più recente Sputerò sulle vostre tombe di Boris Vian. Ebbene il racconto di Mutis “La casa di Araucaíma” – che dà il nome alla raccolta comprendente i sei racconti inclusi nell’opera –, scritto anch’esso per scommessa, non è da meno e sortisce lo stesso effetto.

«Di tutti gli azzardi letterari, l’unico davvero irrealizzabile mi sembra quello di scrivere una storia gotica ambientata ai Caraibi». Parole di Gabriel García Márquez che il lettore può trovare citate nel risvolto del libro e che suscitarono in Mutis l’impulso a compiere questo azzardo.

Il risultato è appunto il breve racconto intitolato “La casa di Araucaíma”, narrazione dalle sfumature gotiche. In verità di propriamente gotico, al di là dell’atmosfera e dello sfondo insolito in cui è ambientato il racconto, risulta la caratterizzazione dei personaggi, che l’autore tratteggia con grande maestria, presentandoceli come equivoci, bizzarri, grotteschi, ma anche alienati, ombrosi e, quindi, gotici.

Anche l’evento che fornisce il pretesto alla narrazione della storia risulta oscuro e misterioso al pari dei suoi protagonisti. In una casa isolata persa nella campagna tropicale, popolata da strani personaggi uniti da una convivenza e da rapporti altrettanto strani e bislacchi, fa la sua comparsa una giovane ragazza che, sotto il fascino del luogo e dei suoi abitanti, decide di sostarvi per diversi giorni. Nell’arco di questo periodo Ángela, questo il nome della ragazza, entra in intimità con ciascuno dei residenti nella vasta casa, ma sarà ben presto motivo di litigi e invidie fra di essi, esasperando dei rancori che già covavano da tempo.

Fin dalle prime pagine si accenna a un misterioso “fatto”, dai tratti delittuosi e addirittura sacrificali. Esso coinvolgerà tutti i personaggi , avvinghiandoli in una spirale di suspance, culminante nella vicenda che porrà fine, sconvolgendola, alla routine della casa e che farà sprofondare nella rovina tutti i suoi abitanti.

Gli altri racconti del volume sono altrettanto affascinanti, resi piacevoli da una prosa limpida e scorrevole, anche quando l’autore descrive con particolari cruenti la fine ingrata del Maestro, co-protagonista insieme a Pietro il pescatore, del secondo racconto, “Prima che il gallo canti” – una trasposizione in chiave moderna del martirio subito dal Salvatore.

Tra gli altri, degno di nota è soprattutto “La morte dello Stratega”: la cronaca della vita di un temerario guerriero, ambientata all’epoca del tardo Impero d’Oriente, che successivamente sarà investito di onorevoli cariche, ma che si rivela fin dall’inizio minato da uno scetticismo desolante, precursore dei nostri tempi e generatore di uno iato tra la vita del protagonista – ossessionato dai dubbi che «lo assalivano come cani rabbiosi» – e gli eventi che vi si susseguono. Egli infine, grazie anche all’incontro con Anna la Cretese (alla quale dovrà poi rinunciare con stoico distacco) si riconcilierà con la vita e potrà andare incontro senza rimorsi a un’ eroica fine.

Nelle pagine che concludono invece la prima vicenda biografica narrata da Mutis nelle cronache del “Diario di Lecumberri” – resoconto della sua esperienza in prigione – possiamo cogliere, decontestualizzandola, l’aporia che ha dato tormento a molti scrittori e che le parole dell’autore esprimono limpidamente: «Non so bene perché ho raccontato tutto ciò. Perché lo scrivo. Dubito che abbia qualche valore in futuro, quando sarò uscito. Là fuori, il mondo non capirà mai queste cose».

Impugnare una penna e tracciare parole, racconti, testimonianze è sempre stata un’arma contro il vuoto esistenziale, contro la tirannia delle ossessioni, al fine di esorcizzare i demoni interiori derivati da terribili esperienze, psichiche o reali, come quella del carcere: «Proprio farne il racconto ha permesso che l’esperienza non annientasse in me ogni ragione di vita».

Naturalmente non tutte le opere debbono nascere coercitivamente da un disagio esistenziale, da un bisogno di purificazione dei tormenti interiori, ma è indubitabile che vi siano scrittori per niente estetizzanti, i quali, sfidando l’insignificanza e la vanità di ogni intento umano, infondono nella pagina scritta frammenti essenziali della propria anima, e sono capaci di farlo con grande maestria nonché con profonda onestà. Mutis appartiene sicuramente a quest’ultima schiera.

Nelle pagine di La casa di Araucaíma, inoltre, è possibile ritrovare la sconsolata ma lucida filosofia che fa da sfondo alla trilogia di Maqroll il Gabbiere – la quale procurò fama mondiale all’autore – e che rivela un approccio alla vita a un tempo distaccato, ma anche foriero di un dolce abbandono, sotto la guida di un mite Fatalismo.

 

(Álvaro Mutis, La casa di Araucaíma, trad. di Carlo Brera, Adelphi, 2014, pp. 176, euro 10)