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Altre Narratività

Genova per noi

di Francesco Vannutelli / 6 marzo

Ho fatto il primo abbonamento per lo stadio quando avevo quindici anni. Fu mio cugino a regalarmelo, per andare insieme alle partite. A quel tempo, la Sampdoria era una buona squadra che si fermava sempre al quarto posto in classifica. Anno dopo anno la vidi crescere e la accompagnai sempre di più, iniziando ad aggregarmi alle trasferte.
Quando nel 1992 si qualificò per la finale di Coppa dei Campioni al Wembley Stadium contro il Barcellona niente al mondo mi avrebbe potuto impedire di vederla. Niente. Se non una serie di imprevisti.
Nel settembre del 1990 mi ero trasferito a Roma per iniziare l’università. Mio padre era stato categorico nell’impormi di seguire le sue orme: avrei dovuto studiare economia e commercio nella capitale, come aveva fatto lui tanti anni prima. A niente erano valse le mie obiezioni, i miei rifiuti, né tanto meno l’evidenza dei fatti. Mio padre, infatti, aveva abbandonato la città e l’università dopo solo un semestre, era tornato a Genova e aveva avviato quella attività di produttore vinicolo alla base del suo successo imprenditoriale.
Quindi, al termine dell’estate del ’90 riunii le mie poche cose e partii. Nei primi due anni non diedi neanche un esame. Il caso volle che quando entrai in aula per seguire la mia prima lezione mi innamorassi perdutamente e incredibilmente ricambiato di una ragazza con cui poi sarei finito a convivere nella stanza di un appartamento per studenti. Non andavo all’università, non studiavo, non me ne preoccupavo. Ovviamente ai miei dicevo che tutto andava bene, che macinavo esami e che avevo un’ottima media.
Nel Natale del ’91, però, feci ritorno a casa per le feste, orbato del mio amore che sorpresi un giorno in compagnia di uno dei miei coinquilini, il castello di bugie crollò sotto l’assedio della prima domanda. Confessai tutto, mostrai lo statino vuoto, ammisi di aver speso tutti i soldi in regali e cianfrusaglie varie, invocai il loro perdono e la loro comprensione. Durante la confessione mio padre era più simile a una bestia che a un essere umano; mia madre provò a farlo ragionare, senza giustificarmi in alcun modo, gli ricordò che se loro erano sposati era proprio perché lui aveva abbandonato gli studi dopo solo sei mesi, dopo averla conosciuta alla festa di Capodanno della famiglia Pagnoncelli, nel loro attico genovese. Mia madre provò a rabbonirlo e forse ci riuscì, fatto sta che le rivelazioni circa i miei veri risultati universitari portarono solo a un irrigidimento dei controlli parentali. Ulteriori ritardi universitari non sarebbero stati tollerati. Per risarcire la famiglia del denaro sottratto indebitamente mio padre mi fece assumere come cameriere in un ristorante di Ostia il cui proprietario si riforniva regolarmente da lui e in cui il mio rendimento sarebbe stato oggetto di costante monitoraggio da parte del severo capo sala.
Per raggiungere il ristorante spendevo quasi tutta la paga giornaliera, già decurtata del denaro destinato ai libri mai acquistati, in benzina per il mio motorino Ciao.
In quei giorni, l’unico conforto su cui potessi contare era la Sampdoria. Per lo scudetto del ’91 ero sceso per le strade di Roma bardato di blucerchiato cercando sodali con cui condividere il mio amore per i “Gemelli del gol”. Poi ci fu la straordinaria avanzata in Coppa dei campioni,. La Samp dominò il girone, battendo due volte i campioni in carica della Stella Rossa, poi fu un cammino entusiasmante fino alla finale con il Barcellona. Vecchia ruggine, quella tra la Doria e i blaugrana: nel 1989 ci avevano sconfitti in finale di Coppa delle Coppe, negandoci la gioia del primo titolo europeo. Era giunto il momento della rivincita.
La finale era una di quelle cose a cui non avrei mai rinunciato in vita mia. Ma proprio quella sera, come era forse lecito aspettarsi da un destino beffardo, venni assegnato di turno al ristorante. A nulla valsero le mie suppliche al caposala, né tanto meno la ricerca di una mediazione paterna («Papà, ti prego, sai quanto tengo alla partita!». «Non è affar mio. Il lavoro è lavoro, il calcio è solo uno sport. Ora scusami ma devo prendere il volo per Londra che ho i biglietti per la finale»).
Così, il pomeriggio del 20 maggio del 1992, montai in sella al mio motorino, con il cuore e la testa immersi nella più completa ansia e confusione, avevo passato la notte formulando evia via scartando ogni possibile stratagemma su come riuscire a seguire la partita. Era successo solo pochi mesi prima che un vice-cuoco, distratto dalla radiocronaca del derby Foggia-Bari, aveva condito con un’emulsione a base di olio di arachidi l’insalata di mare destinata a un cliente che aveva espressamente comunicato la sua allergia quasi letale agli arachidi, provocando così il tumultuoso intervento di un’unità di pronto soccorso, il proprio licenziamento e il conseguente divieto di fare uso di strumenti radiofonici o televisivi per il personale.

Ero rassegnato all’idea di dover vedere la sintesi notturna, avevo passato la sera importunando tutti i clienti nella febbrile ricerca di informazioni, di un segnale di una voce amica. Poi, vidi entrare nel ristorante i coniugi Renzulli, coppia di Genova, amica di mia madre la signora e architetto nonché assatanato tifoso sampdoriano il signore (più volte lo avevo incontrato in gradinata sud al Ferraris in atteggiamenti ben lontani da quelli dello stimato professionista).
Mi vennero incontro sorridendo: «Signori Renzulli, che piacere, che ci fate qui?». «Antonio caro, siamo qui a Roma per il compleanno di una mia zia e Ignazio si è ricordato che lavoravi in questo ristorante, così abbiamo pensato di venire a farti visita», disse lei guardandosi intorno. «È un posto delizioso».
Li accompagnai a un tavolo, volevo chiedergli qualcosa ma il viso di Renzulli era impassibile. Cominciai a versargli il vino. D’un tratto, mentre riempivo il suo bicchiere, l’architetto mi urtò il braccio e una piccola quantità di vino finì sui suoi pantaloni.
«Mi spiace, sono mortificato!», dissi lanciandomi su di lui con una salvietta e sentendo sulla nuca lo sguardo predatorio e assassino del capo sala. «Non ti preoccupare», borbottò, «piuttosto, se hai dello smacchiatore andiamo in bagno a metterlo subito».
Appena entrammo nel bagno, mi afferrò per il bavero della giacchetta e mi sbatté contro il muro. «Dimmi che avete un televisore!». Venne così fuori che l’architetto era una vittima di una trappola, proprio come me. Dopo essere stato sorpreso in atteggiamenti tra l’ammiccante e l’equivoco con una segretaria, acconsentito non aveva potuto che acconsentire alla richiesta della moglie di recarsi a Roma per il compleanno di una zia praticamente mai sentita prima. Ovviamente la vipera sapeva benissimo che ci sarebbe stata la partita in quei giorni. Lei odiava il calcio. Ma l’architetto, confuso dalla colpa e dal terrore di una separazione con addebito, aveva acconsentito senza rendersi conto della coincidenza delle date. «Sei la mia unica speranza, per questo siamo venuti qui. Ho solo questa radiolina ma il segnale va e viene, se mia moglie la scopre mi uccide». Lui aveva lo sguardo supplichevole, e in quel momento ebbi un’idea.«Ci possiamo organizzare», dissi.
Una volta usciti dal bagno, sguardi di sottecchi e messaggi in codice presero a lampeggiare per la sala. avevamo nascosto la radiolina in bagno e, a turno andavamo ad ascoltare qualche minuto, al riparo dal controllo del capo sala e della signora. L’architetto mi raccontò del nostro comune amico, il medico chirurgo Pagliuca, che una volta aveva compiuto un intervento miracoloso su uno spagnolo con una sola mano in una situazione disperata, e un’altra volta addirittura con un piede. Io gli raccontai di quel mio collega bulgaro dell’università che in vacanza in Spagna stava cadendo da un precipizio ma era stato salvato da un palo, o di quel mio amico con i capelli ricci che aveva un gemello e continuava a fallire esami praticamente già superati e che quindi rimaneva a zero.
Il tempo passava e la tensione cresceva. Erano gli ultimi minuti della partita e scoppiò una rissa, l’architetto, nervosissimo, entrò nel bagno. «Che succede?». «Zero a zero, siamo sul finire, c’è un po’ di agitazione in campo, un fallo su Cerezo e gli spagnoli protestano». «Passami la radio». Fu in quel momento che la signora Renzulli entrò. Le bastò un attimo per capire la situazione: vide il filo dell’auricolare e la radiolina, scosse il capo, si girò, se ne andò. L’architetto le corse appresso gridando che le poteva spiegare, e fu lì che entrò il capo sala. In quel momento l’arbitro fischiò la fine dei tempi regolamentari, si andava ai supplementari. «Antonio, speravo di beccarti a fare una cazzata, perché a me quelli che si fanno raccomandare anche per fare i camerieri non mi vanno proprio giù», disse. Da lì successe tutto in un attimo. Mi vidi da fuori mentre gli dicevo: «Senti sûssabelin, io devo andare», gli tiravo la giacca, correvo all’esterno e trovavo l’architetto seduto per terra. «Mia moglie se ne è andata con la macchina», disse. «Non c’è tempo, ci sono i supplementari, ho il motorino qui dietro, ce la possiamo fare». Saltammo sul Ciao, un auricolare della radiolina a testa, a pedalare come dannati alla ricerca di un bar o di un qualsiasi televisore. «Parata facile di Pagliuca!». «Finito il primo supplementare!».
Sembrava che intorno al ristorante non ci fosse nulla: nessun bar, nessun locale, neanche una casa con una finestra aperta. La punizione-bomba di Ronald Koeman che al 111’ minuto regalò la prima vittoria in Coppa dei Campioni al Barcellona ci sorprese sul lungomare, facendoci sbandare e quasi cadere a terra. Scendemmo dal motorino e ci sedemmo su degli scogli senza dire una parola. Il mare avvolto nella notte era nero, all’orizzonte danzavano le luci lontane di navi di passaggio, magari traghetti che viaggiavano lenti verso Genova. «Quello che mi manca di più di casa è affacciarmi dalla finestra della mia stanza e vedere il sole addormentarsi nel mare», dissi senza pensare. L’architetto mi guardò sorridendo e mi porse una sigaretta. Iniziai così a fumare, in quella notte che passai su quello scoglio con l’architetto Renzulli, a raccontarci d’un tratto storie di Samp con la stessa tenerezza con cui si parla degli amori del passato e dell’infanzia. Non so quanto tempo rimanemmo così, tra i ricordi dello scudetto e della Coppa delle Coppe. L’alba ci sorprese che eravamo ancora lì, intirizziti dal freddo e con la mia gola vergine infiammata dal fumo. Un uomo ci passò al fianco facendo un cenno di saluto. Portava una canna da pesca con sé ,la caricò su una piccola barca che spinse in mare a braccia. C’era una rete arrotolata sulla prua. Un gabbiano girò tre volte in volo sopra la barchetta che si allontanava, poi si buttò in picchiata, in mare, e riemerse con un pesce nel becco, e d’improvviso Ostia fu Genova per noi.

20 maggio 1992, Londra, Wembley Stadium.

F.C. Barcelona – U.C. Sampdoria 1- 0

Barcelona: Zubizarreta; Ferrer, Nando, Koeman, Juan Carlos; Bakero, Guardiola, Sacristán;
Laudrup, Stoichkov, Salinas.
A disposizione: Busquets, Alexanco, Begiristain, Nadal, Goikotxea.
Allenatore: Johann Cruijff.

Sampdoria: Pagliuca; Mannini, Pari, Vierchowood, Lanna; Katanec, Lombardo, Cerezo, Bonetti; Mancini, Vialli.
A disposizione: Nuciari, Bonetti, Invernizzi, Silas, Buso.
Allenatore: Vujadin Boškov

Arbitro: Aron Schmidhuber (Germania)

Marcatori: Koeman (B) 111’.