“Accanto alla tigre” di Lorenzo Pavolini
di Matteo Chiavarone / 6 luglio 2010
Ricevuta la notizia della vittoria allo Strega di Pennacchi, ho subito pensato che “beh, avrei preferito vincesse Pavolini”. Sempre così, d’altronde. Quelli che vincono non vanno mai bene. Accanto alla tigre (Fandango 2010) non poteva vincere, è un libro troppo difficile, intenso, duro. Un libro sofferto. L’autore ha messo tutto se stesso e forse anche qualcosa in più. Storia e letteratura. O viceversa. Poco importa. Scavare nel dolore non è mai facile, soprattutto se il proprio dolore coincide con quello di un popolo. L’Italia, si è vero l’Italia. Un paese che non riesce a cambiare pagina. Il fascismo esiste o non esiste. Ancora. Il sogno di qualcuno, l’incubo di altri. Portare un cognome come Pavolini presuppone una scelta: o si scappa da se stessi o si cerca di capire le proprie origini, tornando indietro a cercare la radice di tutto.
Stare dalla parte sbagliata, ma portare avanti fino alla fine le proprie convinzioni. L’antieroe per eccellenza che si perde nel mito, nel racconto.
L’orrore di quell’immagine (simbolo di un paese immaturo) – i cadaveri di Mussolini, Claretta Petacci e alcuni gerarchi in Piazzale Loreto appesi a testa in giù tra cui lo “scomodo” avo, quell’Alessandro Pavolini, mente fertile del fascismo – fa scattare in lui una sete di conoscenza, una arsura difficilmente quietabile.
Tutto è ricostruibile, come un puzzle, ma ci vuole tempo e voglia. L’autore ci prova e ci riesce anche perché conosce il solco che ci passa in mezzo. Lo spazio, il tempo, la vita quotidiana. Il presente. Il futuro. I paradossi del nostro paese e di questo primo decennio del nuovo secolo. I paradossi di un quartiere come quello intorno a piazza Vittorio, a Roma. I paradossi di una città multietnica ma non metropolitana, “europea”. Una città che accetta generazioni di neofascisti – quelli che hanno la loro “caserma” a Casa Pound – e non accetta un futuro troppo pieno di incognite.
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