Michela Murgia vince il Campiello 2010
di Matteo Chiavarone / 5 settembre 2010
Michela Murgia è la fresca vincitrice del Premio Campiello 2010. Dopo lo Strega si aspettava il bis per il vulcanico Antonio Pennacchi e il suo Canale Mussolini ma, a sorpresa, con 119 voti su 300, a trionfare è la brava autrice di Accabadora, uscito per l’Einaudi. “Dedico il premio non alla Sardegna che ora non ne ha bisogno, ma a Sakineh, la giovane donna iraniana” queste sono state le prime parole durante la premiazione avvenuta, come di consueto, al Teatro “La Fenice” di Venezia.
Giunto alla quarantottesima edizione il Campiello continua a non perdere il suo fascino anche se, a mio avviso, è sempre di più lo specchio di una narrativa italiana che in questo momento non riesce ad avere lo stesso respiro di certe letterature europee e non solo. Quello della Murgia, ben intesi, è un bel libro, come lo sono d’altronde quello di Pennacchi e quelli degli altri finalisti (Gad Lerner, Gianrico Carofiglio e Laura Pariani), un romanzo anche tutto sommato completo, purtroppo però incapace di operare quel salto che permette di attraversare quella linea che divide la fiction dalla letteratura.
Eppure quelle centocinquanta pagine, o poche più, che scivolano via con leggerezza – termine che non va mai e poi mai tradotto in semplicità e quindi banalità – come se il racconto di una vita avesse bisogno di un impeto immediato, un furore incapace di fermarsi a riflettere, meritano di essere lette. C’è molto della Sardegna nel suo modo di scrivere e di rapportarsi al mondo circostante, come se la sua terra, circoscritta da acqua e soltanto acqua ma apparentemente arida, sfiorasse ogni parola, ogni suono, ogni riflessione.
Una Sardegna che si ritrae su se stessa, indietreggia verso l’entroterra, non affronta il pericolo del mare. Ma anche una Sardegna bellissima e genuina, quella che De André, alla foce del Coghinas, immagino come possibile paradiso terrestre. La Murgia non è elegante nella scrittura, ma efficace. Come un pugile che, attaccato, risponde colpo su colpo senza badare all’estetica della nobile arte. Mi piace definirlo un linguaggio “nudo”, un linguaggio che fa un uso, proprio e improprio, della “pellaccia”, della propria “pellaccia”.
Pensi alla letteratura sarda e ti viene in mente Grazia Deledda. Ma non si può creare una sovrastruttura col passato così forte. Ci sono semmai influenze latine e sudamericane e soprattutto un bagaglio di cultura popolare (non solo isolano). di cui si sente fortissima l'influenza.
In sardo, «accabadora» è colei che finisce. Da una "questione terminologica" inizia la storia di Tzia Bonaria, la vecchia sarta che conosce sortilegi e fatture e sa dare una morte pietosa, e Maria, la bambina che Tzia Bonaria ha preso con sé per crescerla come una figlia. Ed è la maternità elettiva il tema centrale dell'opera: ("mi appartiene profondamente, perché a mia volta sono fill’e anima; ma per non cadere nella trappola del parallelismo autobiografico, ho scelto volutamente di narrare il rapporto dal punto di vista della madre adottiva, una figura per la quale accompagnare i destini a compimento è solo una delle possibili sfumature della sua maternità, non necessariamente la più oscura").
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