Raboni, la sperimentazione, il dubbio e la ricerca.
di Chiara Pieri / 15 settembre 2010
Giovanni Raboni, poeta, critico, scrittore, traduttore, con la sua fervente attività letteraria ha lasciato un segno indelebile nel panorama culturale del secondo ‘900.
Raboni è stato uno scrittore poliedrico, che ha nutrito la sua vita di letteratura e che alla letteratura ha dedicato la vita, non solo attraverso la vasta produzione poetica, ma soprattutto rappresentando il ruolo di un intellettuale mai chiuso in se stesso e nelle proprie convinzioni, ma costantemente alla ricerca di nuove forme possibili di espressione, che fossero in grado di riprodurre la molteplicità del reale. Perché per Raboni la letteratura non è un valore che si esaurisce in se stesso, escludendo la realtà, ma anzi deve essere in grado di compromettersi con il mondo, di raccontarne i gli oggetti, che non sono più gli ideali e i simboli della poesia classica, ma quelli dell’esistenza quotidiana, colti nella loro essenzialità e nel loro essere correlativi-oggetivi della voce poetica.
Raboni si cimenta così in opere diversissime per stile, poesia, metrica e contenuto: dai personaggi biblici di Gesta Romanorum, alle strane figure che costellano la città nelle Case della Vetra, per approdare ai personaggi politici di Cadenza d’inganno e alle ombre dei cari estinti in Quare Tristis. Dal verso libero delle prime raccolta alla forma chiusa di Versi guerrieri e amorosi, dall’occultamento della soggettività ad un Io lirico, che si innalza tra le pagine, dal linguaggio colloquiale al recupero dell’erudizione e dell’arcaismo; ciò che caratterizza la poetica raboniana è una continua sperimentazione, una ricerca costante, che tende alla formulazione di una poesia non come fonte di verità assoluta, ma come rappresentazione delle infinite possibilità del reale.
La ricerca di una modulazione espressiva, in grado di veicolare i tanti differenti contenuti della realtà e dell’esistenza, in Raboni è mossa da un dubbio profondo e dalla convinzione dell’impossibilità del letterato di affermare con certezza le sue ipotesi. La presenza del dubbio, affiancata dalla volontà di affrontare e denunciare le problematiche sociali e letterarie del suo tempo, fa di Raboni l’emblema dello scrittore novecentesco, combattuto tra un’esigenza interiore di poesia e l’esistenza in un particolare contesto storico in cui il messaggio e il linguaggio poetico stavano subendo radicali processi di transizione e trasformazione.
Raboni, nella sua costante ricerca, non si è limitato a sperimentare in prima persona le possibilità della poesia e della letteratura, ma ha voluto anche confrontarsi con il mondo letterario contemporaneo, analizzando, valutando e cercando di capire l’espressione poetica delle vecchie e delle nuove generazioni.
Nei suoi interventi critici si rinvengono analisi lucide e brillanti, che non esprimono mai un giudizio definitivo, ma cercano di scavare e comprendere le motivazioni, i temi e i diversi linguaggi delle esperienze altrui. Saggi interessantissimi su Sereni, Fortini, Zanzotto, Porta, Pagliarani, Il Gruppo ’63 e soprattutto su quella che Raboni definiva la “Poesia che si fa”, ossia la poesia attuale, quella che veniva fatta in quel momento, non quella che “si dovrebbe fare”, come tanti critici tendevano a dire.
Contrario alle esaltazioni eccessive, quanto alle stroncature, Raboni si è mosso nel mondo della Poesia degli anni ’60 con un talento speciale, quello che lui definiva un “orecchio particolare”, simile a quello musicale, che gli consentiva di ascoltare e comprendere le diverse possibilità poetiche e al contempo di saperne descrivere i pregi, i difetti e le chiavi di lettura.
All’epoca Raboni aveva una concezione ottimista e possibilista riguardo al rapporto tra letteratura e società: per lui la poesia nell’epoca del neocapitalismo stava inevitabilmente passando attraverso un momento di crisi, ma era convinto che proprio il raggiungimento di un limite fosse una fase importante, perché il suo superamento avrebbe portato ad una probabile nuova forma di umanesimo. Diversa la sua posizione nei Bei tempi dei brutti libri e in Devozioni perverse, opere in cui Raboni traccia un’analisi della società moderna e del rapporto con la letteratura, e nelle quali con un’ampia visione, ci offre con precocità un quadro del nostro presente. Un mondo dominato dall’industria culturale di massa, in cui non esiste più la differenza tra ciò che è letterariamente valido e ciò che non lo è, ma solo tra ciò che si vende e ciò che non si vende, dove lo scrittore “d’arte” è costretto a scendere al compromesso della semplificazione, andandosi a mescolare con tutti quegli scrittori che artisti non sono, ma che piacciono ai gusti del pubblico. Anche la vera critica, secondo Raboni, è messa da parte, relegata sotto le mille note di pubblicità, classifiche e gradimenti, destituendo uno dei cardini fondanti della valutazione letteraria e restando solo l’ennesimo trucco dei grandi editori per promuoversi sul mercato. Per Raboni, se non si fosse intervenuti, valorizzando la piccola e media editoria, consentendole di continuare a pubblicare opere di qualità e di spessore, la letteratura sarebbe ormai destinata a distruggersi e a scomparire.
Resta ancora una possibilità, che ci ha insegnato Raboni con la sua esperienza: quella di una letteratura che si metta in gioco, che sperimenti, che provi a modulare la sua espressione e a trovare spazio in un mondo dove, purtroppo, la poesia ha perso significato. Ricerca, dubbio e sperimentazione sono le costanti che hanno accompagnato Raboni tutta la vita e che forse possono essere anche la chiave per un nuovo orizzonte letterario nella società contemporanea.
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