“Scavare una buca” di Cristiano Cavina
di Matteo Chiavarone / 14 dicembre 2010
Il nuovo libro di Cavina sorprende sin dal colore della copertina. Il nero è una variazione cromatica non contemplabile per i romanzi del giovane, e bravissimo, scrittore emiliano. Per questo capiamo sin da subito che la colta leggerezza che lo contraddistingue dovrà lasciare spazio a qualcos’altro. Scavare una buca (Marcos y Marcos, 2010) non è il racconto delle case popolari – spazi che fagocitano giovinezze e vecchiaie in un turbinio di storie e personaggi surreali – ma uno squarcio di vita da osservare, per una volta, non in prima persona. È una storia che sa di antico, che odora di antracite e di polvere. Una storia di miniere e di lavoro, di fatica e di morte. Una storia che ha il sapore della Storia; la piacevolezza di un racconto sussurrato sottovoce, col garbo e l’ironia che solo chi sa maneggiare bene la scrittura può regalare.
Andare giù sotto terra, in profondità, ricorda le miniere verghiane (a cui va anche il riferimento nella epigrafe iniziale) ma con un andamento moderno, quello delle macchine e delle ruspe. Il gruppo di uomini-attori o semplicemente minatori diventano una schiera di “artisti” che scavano la roccia e ne modellano l’aspetto, tra la meraviglia e l’inquietudine di confrontarsi quotidianamente con qualcosa di molto più grande di loro.
Ma l’inferno che è sotto i piedi significa sofferenza e fatica e una vita spesa tra la polvere e una quotidianità sempre uguale. Poi succede qualcosa. Tra i nuovi lavoratori c’è un ragazzo. Ha solo vent’anni e si chiama Luciano. La miniera è il destino che gli ha riservato qualcuno che ha scelto al posto suo. Così non può essere ma lì sotto non c’è spazio per il conforto. Si lavora, inconsapevoli della catastrofe in atto.
Cavina avanza cantilenante, procede col suo fare sornione, giocoso ma maturo: un omaggio – molto raro al giorno d’oggi – al mondo del lavoro, quasi a rappresentare una collettività (con l’uso prima dell’Io e poi del Noi) che suda e fatica per portare a casa il pane e cercare di dare serenità alla famiglia. E lo fa distinguendo i materiali, dividendo scrupolosamente attrezzature ed oggetti, come se il mondo “fantastico” (anche nella complessità) dei precedenti racconti si trasformasse in una realtà fisica e profondamente materiale.
Lasciare da parte se stessi o forse soltanto lo strato superficiale che ci portiamo addosso – come un vestito da dover togliere ad ogni costo – è un qualcosa che richiedere coraggio e sacrificio, un atto d’amore per la poesia, intesa come spazio di osservazione privilegiata del mondo e della vita.
Questo quinto libro è il meno personale ma il più sofferto e, a mio avviso, il più sentito. Un’opera che forse inconsapevolmente conduce per mano lo scrittore a confermarsi decisamente il più interessante autore della nuova generazione: un autore consapevole del proprio talento e dei propri limiti; un autore capace di unire e separare, a sua volontà, il reale, il verosimile e, perché no, il fantastico.
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