“Dopo molte estati muore il cigno” di Aldous Huxley
di Matteo Chiavarone / 20 dicembre 2010
Riproposto dalla casa editrice “Cavallo di Ferro” uno dei capolavori di Aldous Huxley, Dopo molte estati muore il cigno, considerato da molti (e non solo da Burgess) uno dei più bei libri della letteratura nordamericana e mondiale.
Il genio de Il mondo nuovo – tra i maggiori intellettuali inglesi del novecento – propone in questo testo un affresco al tempo stesso satirico e malinconico (senza dimenticare l’approccio alla “materia” di stampo filosofico) sull’uomo inteso come organismo unitario che – nonostante l’autodistruzione che da lì a poco sarebbe avvenuta (il libro è del 1939, poco prima dell’esperienza bellica) – tenta di raggiungere l’antico desiderio di vivere per sempre.
In Italia il libro esce nel 1945 – sei anni dopo, quindi, la prima edizione anglosassone – per la Mondadori e, adesso, cinquantacinque anni dopo viene riproposto al pubblico – con l’ottima traduzione di Catherine McGilvray – nel tentativo, giustificato e “giustificabile”, di dare risalto ad un volume ahimè troppo spesso dimenticato dalle librerie.
Quello che Huxley definì una “piccola fantasia” o una “selvaggia stravaganza” (al tempo stesso “comica” e “ammonitrice”, “farsesca”, “agghiacciante” e “riflessiva”, “macabra” e “improbabile'”) è in realtà una profonda riflessione sulla realtà e sul dipanare quotidiano della vita, una riflessione “pensata” e ben ponderata nonostante venga sempre ricordato che l’opera sia stata scritta in pochissimo tempo.
Dopo molte estati muore i cigno riesce ad essere incredibilmente e parimenti il libro più vicino e più lontano ad Huxley, sia per la capacità di mescolare immagini e generi che per la capacità di tenere il lettore con il fiato sospeso come se si trovasse di fronte ad un qualsiasi thriller o giallo.
Ma thriller e giallo non è, tutt’altro. La riflessione arriva fino al parossismo, i piani si separano vorticosamente fino a creare un unicum solo apparentemente indistricabile.
A metà strada tra Dick e Kubrick – e rincorrendo velatamente la letteratura tardo ottocentesca, gli esperimenti cinematografici di primo secolo e gli avvenimenti storici che attraverso la politica di propaganda e la “predicazione” di un welfare (quello che in Italia e Germania convergerà prima in populismo e poi in dittatura) dava ampio spazio alla forza immaginifica – il flusso narrativo fa l’occhiolino a Tennyson (da un verso di Thitonus deriva il fortunato titolo) e si realizza con la forza di una dura ed intelligente ironia che si fa gioco della secolare dicotomia tra fede e scienza, impeto e razionalità.
Huxley manovra i personaggi a sua volontà dimostrando di voler provare, riuscendoci, di ridurre tutta la vita in farsa. Ma se di farsa si tratta, e lo è, bisogna venirne a capo e definirne i contorni.
Il vecchio miliardario Stoyte si veste di ridicolo, non solo nelle azioni ma anche negli intenti. Il desiderio di vivere si materializza, per lui, in una non accettazione della vecchiaia, come se il suo ruolo nella società e il suo impero economico lo potessero esonerare dalla “fine”.
Ma la macchietta che ricopre non è irreale, diventa persino “attuale” pensando ad esempio a uomini del nostro tempo. Il riferimento che faccio è ovviamente al nostro presidente del Consiglio e non è puramente casuale. Basterebbero le affermazioni del nostro premier di qualche tempo fa (quando affermò che l’unica ricerca importante è quella riguardante la longevità) ma le somiglianze si susseguono e si moltiplicano pagina dopo pagina. La personalità dell’uomo è ben definita nelle predisposizioni, nelle opinioni, nelle banali valutazioni (ad esempio la vitalità dell’uomo che si misura sulla base della vita sessuale): la democrazia come “significante” senza “significato”, l’assenza di confronto in attività gestite dittatorialmente con la volontà di sopraffare i “sottomessi”, la giovane amante da “viziare” per realizzare ogni capriccio o desiderio vacuo.
Intorno a lui i “fedelissimi” che lavorano alla “causa”: come il dottore che lavora per “ringiovanire” il vecchio in attesa di trovare l’ambita formula della longevità.
Ma lasciando da parte l’inutile gioco di specchi è difficile tessere una trama che si ramifica in più direzioni: le strampalate vicende che si rinnovano costantemente, le caratterizzazioni di ogni personaggio, le vicende legate ad un manoscritto da riportare alla luce, i discorsi del letterato e “iper-colto” Propter (personaggio indovinatissimo, anche se questi monologhi possono apparire spesso troppo estesi e pleonastici).
Quello che rimane è, a conti fatti, un terreno quanto mai fertile che si nutre di un argomento sensazionale che lascia spazio a diverse interpretazioni. Oltre che ad una certa, bellissima, sensazione di amaro in bocca.
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