Dello stagismo e altre infamie
di Laura Mancini / 10 febbraio 2011
Salutiamo con favore la segnalazione del problema dello stagismo selvaggio da parte della Camusso. «Il lavoro gratuito non sta nelle regole» ha detto. Deo gratias alleluja jubilate deo. Nessuna inutile polemica sulla tardività della scoperta, (è proprio il caso di dire, banalmente, meglio tardi che mai), e poi da quale pulpito potremmo mai indispettirci, proprio noi, il passivo esercito degli stagisti che giorno dopo giorno ci rechiamo muti sul posto di lavoro, anzi nel santo loco della formazione? Riflettiamo sulla parola formazione. Questa, come non è difficile intuire, deriva dal sostantivo forma. E va be’, a parte l’inconcludente discorso sull’etimo della parola, peraltro non interessante né significativo: non è vero niente. Lavoriamo gratuitamente punto e basta, che ci formino, plasmino, modellino o cesellino, resta questo l’unico dato di tanto malvagia quanto oscena certezza. Gratis.
Lo facciamo tutti, sospirando per l’ingiustizia, e commentando tra di noi: «Certo che in Francia… Lì si sono rifiutati, collettivamente, e lo stage non retribuito non esiste», sempre questo ruolo di cugini ritardati dei francesi, a raddoppiare la condizione di (auto)umiliati e (auto)offesi.
Vi racconto un aneddoto sgradevole. Un mesetto fa, quando avevo appena superato i primi due (di sei) mesi di stage, mi ha telefonato un reclutatore di personale (come si dice? Un talent scout). Aveva avuto il mio cv tramite il sistema di collocazione dell’ateneo nel quale mi sono laureata. E mi proponeva una posizione di segretariato specializzato, per così dire. Ah bello, grazie. Con un periodo di formazione preliminare. Ah sì, e di quanto tempo? Di sei. Scusi, nel profilo professionale che mi ha inviato c’è scritto che si tratta di un periodo di sei. Ma sei cosa? Settimane o mesi? Mesi. Ah, ecco. Allora non posso, grazie. Come no? E ha inizio la ramanzina. Una predica di scarso impatto psicologico, forse volta al nobile e in fondo generoso scopo di farmi almeno partecipare al colloquio. Ma talmente ignobile per forme e contenuto da sconvolgermi. Come, lei si rifiuta di svolgere sei mesi di stage, non è possibile, io quando sento delle persone giovani fare affermazioni di questo genere proprio non capisco, io DICO ARRIVEDERCI E GRAZIE. Bene, arrivederci e grazie anche a lei. E via così fino ad un mio più corposo no che ha chiuso la conversazione in gelato addio.
Questo per sottolineare l’assurdità del fenomeno sociale che rappresentiamo noi, branco di miserevoli geni, con le nostre lodi accademiche e i nostri progetti futuri, spietatamente stroncati dal periodo di formazione. Una formazione deformante, una forma di sformato di formaggio alla formalina che tutti ci avvelena e in fondo disinforma.
Insomma dopo gli studi, dopo gli ottimi risultati, dopo gli urrà, i bravi, gli applausi, le gratificazioni, ecco l’addio, a mai più rivederci, non chiedete aiuto, si salvi chi può. E poi ancora: ora che il mondo reale sghignazza spietato al tuo innocuo cospetto, orsù ex studente, non tediarmi oltre coi tuoi infantili vagiti, accetta il degradarsi della tua condizione esistenziale.
E poi la gerarchia, i soprusi, addirittura ormai il discrimine tra coloro che lo stage – mi hanno preso per la gola, giuro non volevo ma come facevo – lo hanno accettato e quelli che – truffando, essendo raccomandati o essendosi laureati negli anni novanta – lo stage no, non lo hanno accettato, piuttosto la morte.
E quindi evviva questo fugace, ma simpatetico proliferare di articoli e articoletti sui diritti dello stagista, sui metodi di difesa personale per neolaureati eccetera eccetera. Che ne sappia chi non ne sa e che cominci a riflettere sulla propria situazione chi l’accetta senza comprenderne la gravità.
Ma che cosa succede alla fine di questi stage? O si viene messi alla porta con rammarico, per l’impossibilità di allargare l’organico a una nuova unità, d’altronde così poco ingombrante quando non retribuita, o si riceve una proposta ed è lì che casca l’asino, cioè l’ex stagista (ma come? Non si trattava di un brillante neolaureato con lode e pubblicazione di tesi?) e forza! Via ai co.co.pro. e ai su.per.cu. A buon intenditor poche sigle.
A cosa serve questa riflessione? A nulla. È un’amara e superflua ammissione di colpa, che spero un giorno i figli perdonino. Il biblico e patetico accenno ai posteri è un’altra costante nei nostri sempre uguali discorsi di autocommiserazione, quindi non me ne abbiate. Per quel che riguarda la condizione di stagista, a me ha regalato una nuova, poetica fragilità, una vulnerabilità che ha dello sgomento. A me lo stage ha dato la possibilità di affermare: anche io subisco un’ingiustizia, anche io partecipo a questa forma di disperato eroismo nazionale, nella precarietà riscopro il collante sociale che m’era venuto meno, in questo deficienza io sento d’acquisire spessore. Quindi perché dovrei rammaricarmi?
Un ultimo e fulmineo aneddoto sgradevole. Un giorno in ufficio è giunto nonsochi che additando noi stagisti ha esclamato: «Schiavi! Eccoli gli schiavi!» Ora, come reagire a un appellativo tanto doloroso? Con una gaia risata colma d’isteria? Con la formulazione di malocchio ai danni del delirante offensore? Con impassibile indifferenza?
No, noi siamo gli schiavi e prima o poi vi daremo fuoco.
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