Indignarsi non basta
di Maria Teresa Grillo / 30 aprile 2011
Indignez-vous! di Stéphane Hessel è stato senza dubbio il caso editoriale di quest’anno: un pamphlet di poche pagine che più di cinquecentomila francesi hanno portato a casa (e verosimilmente hanno letto) per la modica cifra di tre euro – molti di più di quelli che hanno deciso di acquistare La carta e il territorio di Houellebecq (vincitore del premio Goncourt) che pure era dato per favorito dai librai.
Il libello dell’ex partigiano d’oltralpe (tradotto in Italia da Add con il titolo di Indignatevi!) ha generato una fortissima eco: il suo appello da figlio della Resistenza, rivolto alle giovani generazioni affinché prendano coscienza del fallimento dei valori per cui i nostri nonni hanno combattuto, ha suscitato un dibattito intenso a destra come a sinistra. E, ovviamente, non sono mancate le critiche. Mentre il conservatore «le Figaro» ha sostenuto che “indignarsi non serve”, etichettando l’indignazione come un atteggiamento snob, quasi disimpegnato e, in ultima analisi, sterile, in Italia la critica più autorevole è venuta da sinistra: da Pietro Ingrao, uno degli uomini più importanti nella storia del Partito comunista italiano, anche lui partigiano durante la Resistenza.
Indignarsi non basta afferma Ingrao, sin dal titolo del suo libro-intervista con Alberto Olivetti e Maria Luisa Boccia (Aliberti editore, 64 pagine, 5 euro). E continua: “La politica nella mia vita è una passione tenace. Ancora oggi, in età avanzata, non è spenta. Esito a spiegarla con una motivazione morale. Non la vivo come un dover essere. Anzi. Sono scosso da passioni vitali, direi dalla corporeità della vita”.
La risposta a Hessel ruota intorno a un concetto fondamentale: d’accordo con lui sul fatto che ogni individuo debba sentire la politica come un qualcosa che lo riguarda, che lo spinge ad agire, per Ingrao tutto questo non può essere sufficiente, e non porta ad alcun cambiamento reale se non si incardina in un’organizzazione, in una relazione condivisa, sia essa un partito o un movimento. La dimensione collettiva dell’agire, la costruzione del soggetto politico, dunque, come unico antidoto all’individualismo che è solo ripiegamento su se stessi e veicola il pericoloso virus dell’indifferenza.
Una dimensione collettiva che però, allo stesso tempo, non può e non deve dimenticare l’individuo da cui è partita, la sua varietà e la sua ricchezza, evitando in tal modo di ricadere nell’errore commesso dai vecchi organi del Pci, che ha rivendicato i diritti sul lavoro e nella vita sociale, dimenticandosi però della libertà del soggetto politico. L’esperienza da riattualizzare, secondo Ingrao, è quella che portava gli elettori a essere attori, e ad agire di conseguenza secondo un progetto comune: “La decadenza della forma partito e il suo pervertirsi hanno agito, restringendone drasticamente i margini, sulla capacità di dialogo e di ascolto; sul confronto tra culture; sulla possibilità di influenza reciproca; sulla trasparenza nei rapporti tra governati e governanti. Insomma, sulla formazione dello spirito pubblico”. Senza l’agire politico, la rappresentanza diventa solo una questione di numeri e di legittimazione: pertanto, è mutilata. Anche la protesta – e qui il riferimento ai movimenti degli studenti e dei giovani ricercatori è esplicito – se non si consolida nella costruzione di un soggetto politico e di un agire collettivo, finisce per esaurirsi nella manifestazione della protesta.
Un altro è il punto importante sul quale Ingrao critica l’ex partigiano francese: l’inefficacia assoluta della lotta violenta. Hessel sostiene infatti che “Dirsi che la violenza non è efficace è di gran lunga più importante che sapere se bisogna condannare coloro che la praticano”. Per Ingrao, invece, la non violenza di cui Hessel si fa portavoce non può essere accettata in maniera acritica, non può essere un imperativo categorico: la Resistenza stessa è stata violenta. “Il mio pacifismo non è rifiuto assoluto. Sono stato e resto persuaso che l’azione armata del nemico costringe a rispondere con le armi. Mi sono sempre riconosciuto in Ettore. Achille non è mai stato il mio eroe”. Come dire: un conto è l’articolo 11 della Costituzione, un conto è il netto rifiuto di imbracciare le armi in nome della (propria?) libertà.
La critica di Ingrao arriva a interrogare il concetto di indignazione in sé: l’indignazione è un sentimento e, come tale, non dà conto delle trasformazioni sociali, della dimensione concreta dei problemi, anzi: secondo Ingrao, essendo una mera denuncia “in qualche modo, li occulta”. Per questo indignarsi non basta.
All’Hessel che sostiene che “in qualsiasi rivoluzione o insurrezione la speranza è sempre stata una delle forze dominanti”, Ingrao risponde dicendo che “Proporsi di conseguire con efficacia un risultato significa suscitare e orientare forze, verificare i modi e, appunto, le forme attraverso i quali l’incontro e lo scontro procedono. È la politica. […] Che l’indignazione possa supplire alla politica e, in primo luogo, alla creazione delle sue forme efficaci è illusorio”.
“Creare è resistere. Resistere è creare” chiosa Hessel. Neanche di questo si accontenta Ingrao: “Se posso permettermi, per creare non basta resistere. Tutto ciò che la resistenza ha creato è dovuto a ben altro che non a una prima, seppur decisiva, reazione”.
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