Incontro d’estate
di Andrea Viviani / 11 giugno 2011
Voleva bruciarlo, Truman Capote, questo libro pensato da giovanissimo (per certo prima dei suoi 24 anni) e pubblicato postumo quando per vicende fortuite ne è stato rinvenuto il manoscritto.
A leggerlo, il perché di questa eclissi lo si può intuire. Tolta la qualità scrittoria, eccelsa (è un rapimento estetico, quello in cui ti precipitano le sue parole: filano via d’un fiato, le pagine, vivide di colori e situazioni, fattuali ed emotive), a vacillare e non poco è la tipizzazione dei personaggi. Gli eventi precipitano, non accadono, e certe consapevolezze, specie nella giovanissima protagonista (17 anni appena) anticipano forse un po’ troppo il dato… naturale.
Qualcosa, per dirla facile, stona.
Sposa d’impulso, travalica d’una decisione subitanea (e troppo sensuale per l’acerba donna che è: i trasalimenti di pagina 84 sono d’altre maturità) un abisso sociale, una faglia tra due placche, e si consegna a una tragedia davvero insensata i cui contorni l’autore lascia con un pizzico forse di compiacimento (c’è moralismo, a pagina 88, e forte biasimo a pagina 111) presagire prima velatamente poi apertamente (a pagina 88)
C’è anche altro, ovvio, nelle 116 pagine del volume (furbescamente rimpolpato da apparati un po’ leziosi, al limite dell’agiografico: capita, coi miti). Capote tratteggia due mondi: quello dell’agiata borghesia quasi-aristocratica cui appartiene la fanciulla e quello del vivace sagace e mordace proletariato nicchia del suo amante-sposo. Ne descrive i rituali; anche, forse soprattutto, gli abiti mentali. Chiaro da subito che non è possibile alcun superamento della cesura tra questi due mondi diversamente, ma non con diverse intensità, intrisi d’ingiustizia e di violenza. E non c’è lirismo in entrambi, se non nella blanda estetica della scoperta dei bassi-fondi (di cui però non regge i contenuti da sola, la fanciulla, per quanto tenti: solamente può addentrarvisi scortata dal suo rude scudiero) che fa tanto, alla nostra sensibilità, Pasolini in gonnella d’oltreoceano.
Non ha la potenza di un’anti-Lolita, quest’acuta e annoiatissima signorinella agile di pensiero (non di penna: quella è di Truman) in cerca delle emozioni forti che la ricchezza, di cui è (pure!) ben consapevole (pagina 81), non riesce a procurarle. Non rischia, non osa davvero: è agita e non agisce e finisce, com’è inevitabile, col tirare guai e di guai sommergere, senza riscatto, senza scampo, l’unica figura “pura” e non corrotta sul palcoscenico della sua esistenza di bambagia. L’uomo che la ama, che agisce il riscatto (lo tenta, almeno) e con esso il rientro all’alveo cui solo pertengono e trovano contenimento le di lei vacue smancerie… ebbene proprio quell’uomo sarà, al pari dello sposino e del suo compare, punito da questi e poi (per modalità che è bene il lettore scopra da sé) dalla sciocchina stessa. Quasi fosse una colpa essere amati e amare di cure di contro alla incosciente brutalità pasta vera di cui si rivela fatto (già non fossero stati chiari indizi sposalizio avventato e copule dissennate) l’amore del proletario.
Quasi non potesse tollerarlo lui, l’avido di vita («La maggior parte della vita è così noiosa che non vale nemmeno la pena di parlarne, e ciò è vero a qualsiasi età», p. 104), d’amore e cure Truman Capote.
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