“Operette ipotetiche” di Ugo Cornia
di Dario De Cristofaro / 21 giugno 2011
«L’altro giorno pensavo se io avessi un figlio e un cane, per esempio un cane che era già a vivere con me a casa mia e aveva all’incirca tre anni, età che io stimo quella del cane adulto, e appunto a quell’epoca, quando il cane aveva tre anni, mi nasceva anche il figlio, e però quello che stavo pensando è se mentre il bambino cresceva, di mese in mese, piano piano si capiva da tutti i suoi primi versini e sorrisini e mossine che mio figlio invece di prendere da me prendeva dal cane, come se in realtà fosse il cane suo padre».
Sentire Ugo Cornia mentre legge le sue Operette ipotetiche è, a dir poco, un’esperienza catartica: con un ritmo cantilenante, alternando toni alti a toni bassi, riesce a inebriare la platea quasi fosse un aedo ubriaco, intento a cantare le sue odissee celebrali. E non puoi non piangere dal ridere, mentre lui, assolutamente serio e impassibile, sragiona comicamente con la sua tipica faccia da emiliano doc. Tornare poi a casa e rileggere quelle pagine così “alcoliche” riconcilia con il buon umore, con la semplicità della spensieratezza.
Quattordici racconti, o meglio ragionamenti ipotetici. Quattordici situazioni che partendo da un pensiero improvviso degenerano, in maniera assolutamente comica, attraverso labirinti e stradine secondarie per giungere poi ad un finale ancora più assurdo. Il tutto intervallato da risate e sconquassamenti emotivi, impossibili da evitare.
Nascono dalle ipotesi più diverse e dai pensamenti più impensabili queste operette di Conia: diventano linee ondulate, arabeschi mentali al servizio totale dell’ilarità.
Concepire di avere un cane e un figlio e il cane alleva il figlio, che non risponde più al padre putativo; riflettere sulle gesta erotiche di Giove e Mercurio che, in quanto Dei, possono avere le donne che vogliono, ma in particolare, quelle di due fratelli a cui causano ogni sorta di disgrazia pur di copulare con le loro mogli; realizzare che le cose che vediamo possano sparire da un momento all’altro, appena distogliamo lo sguardo e che esistano dei geni ingannatori che si divertono a prendere in giro tutti; o, ancora, pensare a Dio che si impunta nel voler resuscitare la mummia di Tutankhamon, pur avendo a disposizione uno svariato numero di morti illustri, e ipotizzare uno strano sortilegio voodoo che costringe il povero scrittore a praticare onanismo contro il suo “apparente” volere. Questi ed altri sono i temi irreali trattati da Cornia in maniera magistrale, quasi fosse un filosofo impazzito che si fa beffa dell’intero genere umano.
La scrittura, il suo stile, solo in apparenza non curati, rivelano un uso consapevole del linguaggio tanto da permettere all’autore di esprimere liberamente anche le teorie più folli senza mai scadere nella banalità e nell’imbarazzo. Anzi, l’andamento della frase sembra accompagnare il ritmo della risata, quasi Cornia lasciasse al lettore il tempo necessario per sganasciarsi dal ridere, e lo riprendesse poi nuovamente per mano con i suoi sragionamenti.
Ed è allora un piacere immergersi nelle elucubrazioni “corniane”, abbandonarsi alle risate, dimenticare per un po’ la serietà, presunta o reale, che ci circonda quotidianamente e vagare per i meandri sbilenchi e folli delle sue Operette ipotetiche.
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