Il “cantare” tra poesia e canzone
di Antonella Finucci / 4 luglio 2011
Nella varietà di forme in cui ci si presenta la poesia nel corso degli anni, ce n’è una antica e poco conosciuta ma di grandissima importanza per il ruolo che ha svolto nello svincolare la letteratura dagli schemi predefiniti dentro i quali si era mossa fino ad allora.
Siamo nel Trecento, e parliamo del cantare.
Siamo in un periodo di fervente religiosità, e il cantare rispecchia appieno questo sentimento popolare. Nasce, infatti, come metro narrativo con contenuti prettamente religiosi. Formalmente parlando, invece, ci troviamo di fronte a un evolversi della più arcaica forma siciliana (otto versi a rima alternata) verso quella toscana, che sarà quella che poi si cristallizzerà (fatta di otto versi, di cui i primi sei a rima alternata e gli ultimi due a rima baciata).
Nel Trecento troviamo per lo più cantari singoli, i cosiddetti “rispetti spicciolati”, cioè poesie autonome, non raggruppate in un corpus organico, come invece accadrà in seguito.
Gli studi specifici su questa forma poetica risalgono all’Ottocento, non a caso: si iniziava in quel periodo a dare importanza alla poesia popolare, nascevano gli studi etno-antropologici, si iniziava a prendere in considerazione, insomma, l’agire culturale delle “classi subalterne”. E inoltre il Romanticismo aveva ampliato l’orizzonte della vita intellettuale con una rinascita del senso religioso, dunque si era meglio disposti ad analizzare e studiare questo tipo di poetica.
Chiaramente gli studi sui cantari sono iniziati soprattutto per ragioni di interesse linguistico, e la critica ottocentesca, sebbene li avesse presi in considerazione (studiandoli), ne evidenziò la povertà formale, la distorsione lessicale, la sintassi approssimativa e lo scarso rigore metrico.
Da questo ambito visuale si vede come restasse fuori dal campo d’analisi quella che era realmente la rilevanza dei cantari nel Trecento: la partecipazione, il coinvolgimento popolare alla poesia.
E a far sì che ciò avvenisse fu il misticismo, la religione. Francesco De Sanctis ne parla nella sua monumentale Storia della Letteratura Italiana come un esempio di consapevole processo di rielaborazione della preghiera in poesia. Un processo che fonde la materia religiosa, il sacro, il divino con l’umano, col grottesco, con la tragica pochezza della nostra natura. Tutto questo perché la dicotomia sacro-profano era qualcosa di totalmente assente nelle coscienze degli uomini medievali: le loro vite erano così, incredibilmente, intrise di Dio che separare le due cose era un’impresa impossibile. Antistorica, forse. Anche Benedetto Croce nel 1933, in Poesia popolare e poesia d’arte, si ritrovò a parlare di questo tipo di poesia, quando notò le (tante) analogie tra la poesia religiosa e quella profano-politica: una causa da sostenere e da promuovere, per tenerla viva negli animi e, dunque, una conseguente forte passione che ne muoveva la composizione.
In ogni caso, sebbene si cominciasse a discuterne, fu Ezio Levi, ai primi del Novecento, a valorizzare finalmente i cantari come forma di poesia popolare, intuendo quale fosse davvero la loro importanza sociale, come veicolo di valori culturali altrimenti inaccessibili al popolo.
Successivamente emersero gli studi di Vittore Branca, che partì nella sua analisi da alcune stampe d’epoca che rappresentavano grandi folle commosse intorno a un canterino. Dei canterini sappiamo molto poco, dato che generalmente restavano anonimi. Branca insiste sui visi degli ascoltatori, estasiati, quasi rapiti dalla narrazione. Questo a dimostrazione che il cantare signoreggiò nelle piazze di quasi tutta Italia, per ben due secoli. Secondo lo studioso, il cantare sorse dai racconti cavallereschi e insieme dai canti dei giullari. Fondeva le due forme, creandone una totalmente nuova che veniva incontro a un bisogno vivissimo del popolo di staccare dalla monotonia quotidiana e fantasticare con le avventure dei cavalieri o con le vite dei santi, entrambe così degne d’ammirazione. A catturare inoltre l’attenzione di coloro che ascoltavano era la sua stessa forma, l’ottava, di certo non aulica ma così disciplinata e ordinata che nella sua compostezza era ritmata e accattivante. Potremmo dire, musicale.
La musicalità infatti era di certo un altro dei punti di forza di questo tipo di poesia.
Parole e musica fuse in armonia. Anzi, musica prevalente sulla parola.
Infatti, nonostante fossero già fiorite le tre Corone del Trecento e ci si avvicini all’umanesimo, l’atmosfera del cantare rimane arcaica per il suo attaccamento all’elemento musicale e a una base scritta provvisoria, tutt’altro che fondamentale: il cantare, più che essere letto, veniva recitato.
O, più filologicamente parlando, diciamo che il testo poteva avere tante varianti, privilegiate di volta in volta da un usus diverso. E sono queste varianti che devono essere ancora meglio studiate, approfondite, proprio per sciogliere un nodo importante su cui ancora si dibatte: la relatività, ossia la convertibilità di un testo, è contrassegno dell’oralità? Difficile rispondere univocamente, in quanto il filtro, la mediazione della scrittura era comunque ineliminabile.
Proprio per questa grande mobilità redazionale, ogni testo fa storia a sé, rappresentando una versione diversa anche di una stessa storia. Ciò comporta la difficoltà a risalire a un’origine precisa, in quanto è inapplicabile al cantare, per i motivo suddetti, la metodologia ecdotica di tipo lachmaniano. E la conseguenza è drastica: dal punto di vista testuale un cantare ha l’età del codice più antico che lo riporta. Ciò vuol dire allora, che se un cantare è tràdito solo da manoscritti, ad esempio, quattrocenteschi, esso è, dal punto di vista testuale, un testo del Quattrocento.
Insomma ci troviamo dentro una critica di confine tra l’oralità e la scrittura, tra la musica e la parole, problematiche di rilievo sollevate da una forma poetica sottovalutata per troppo tempo.
Addirittura Carlo Dionisotti ipotizzò che Boccaccio stesso potesse essere l’inventore del poema in ottava, e non, come fino ad allora si era pensato, che ne fosse stato “semplicemente” influenzato. Di questo non si è sicuri, alcuni studiosi sono in totale disaccordo, ma il fatto stesso che esista un dibattito al riguardo ha arricchito senz’altro la percezione e la portata storica di questo metro ancora così poco noto. Domenico De Robertis, altro noto filologo che si occupò di cantari, in un convegno che si tenne nel 1981 a Montreal sul “Cantare italiano dei secoli XIV e XV”, affermò che Boccaccio, nei suoi primi esperimenti linguistici, adottò come metro l’ottava, senza ombra di dubbio. E inoltre individua i due momenti di maggiore divulgazione e di diffusione del cantare: con il Pulci la prima e con i poemetti religiosi della cerchia di Santa Caterina da Siena la seconda.
Aggiungo solo, giusto per fare qualche nome, che tra i più grandi fautori del cantare troviamo Niccolò Cicerchia, Fra’ Felice Tancredi da Massa e Neri Pagliaresi.
Ci sarebbe da dire ancora moltissimo. E ancora moltissimo ci sarebbe da studiare. Magari questo piccolo spunto di riflessione sarà un pungolo, uno stimolo per qualcuno a volerne sapere di più
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