Dici per i tavolini, magari, per quell’aria un po’ rétro che non respiri più, a Roma, nemmeno a scovare l’angolino più nascosto del quartiere meno battuto. Dici per la programmazione: gratis (e che, ogni volta lascio un contributo?! seeeee!), di qualità; più cose in una sera come nemmeno al multisala. Dici per la vicinanza di Piazza Navona, che sempre un po’ di struscio di figa c’è, e di quella raffinata, che batte i monumenti…
O forse no. Magari ci vai una volta, al Valle Occupato senza k, fortunato perché chi ti ci porta “conosce”, e allora entri dentro davvero, e non sei spettatore di uno show ma ne sei parte, da subito. E capisci che aria tira: seria, compita quasi, all’opposto del pregiudizio che ti ha accompagnato fino alla soglia e che ancora invischia le penne dei contrari. Di quelli che si stupiscono non si sgomberi, il Valle, che non si vada avanti con la legge, che il progresso è sempre magnifico e bla bla bla.
Chi c’è, fa. E molto. E chi c’è non te lo aspetti, che sia lui o lei. Magari non ci sono tutti tutti, ma il pattuglione di quelli che ci mettono la faccia (e il culo: se si sgombra si identifica, ed è reato occupare) è nutrito. E da tanto: è da Giugno che occupano, si preoccupano, pensano, lavano cessi e tappezzerie. Da Giugno. Senza ferie, senza requie, perché in ballo c’è più del Valle. In ballo c’è il principio.
Vacci, annusa l’aria. Rimarrai sgomento: tanto sei abituato a sederti e guardare, semmai a cambiare canale ed emozioni, che ti schianta, l’aria fattiva. Il candore col quale senti dire, a chi passa quando non c’è programmazione, che «Entrare così non si può: il teatro è un bene storico pregiato, dobbiamo fare attenzione a chi entra e quando. Puoi tornare sabato, c’è la visita guidata».
Vacci, sentiti come me, dopo un po’: «E io? Che posso fare, io? Come posso dargliela, una mano?». Perché è così, che funziona, al Valle: tanto confronto, pochissima ideologia (che altro c’è da dire, in fondo, oltre a «Cazzo, è un bene pubblico!»), e un mazzo così. Non solo la gestione in sé, pure pesante: il confronto con se stessi, gli altri, il pubblico, la gente in strada, i detr-attori. I professionisti del non si può, non si deve, ci pensa qualcun altro a fare gestire organizzare e decidere per me.
Al Valle no. Al Valle si decide assieme, e chi c’è conta uno. Poi c’è anche il bar, coi tavolini. Gli spettacoli e le belle fanciulle perché no? Che male c’è? È l’insieme, che stupisce. Quello che fanno, le belle fanciulle al tavolino. Senti e t’imbarazzi. Ancora, a mazzi si dileguano, a stormi volan via tutti gli altri pregiudizi. Ti sono amici, gli occupanti del Valle, con facilità. Sarà che hanno avuto il coraggio di fare quello che sogni, di vivere ciò di cui lamenti l’assenza («Se l’occupassimo, l’ufficio? Se ci autogestissimo? Abbiamo davvero, davvero bisogno che altri ci dica cosa va fatto?!»). Sarà che chi crede davvero in qualcosa ce l’ha stampata in volto, l’onestà intellettuale, ed è bello, rivederla, di tanto in tanto. Sarà che è tempo speso bene, quello al Valle, e con persone di spessore.
Sarà, ma il dubbio viene. S’affaccia, timidino timidino: e se… osassimo? Osassimo tutti, ciascuno nel suo settore? Osassimo riprenderci ciò che è nostro non per rivalsa, ma per diritto naturale? Che Italia sarebbe? Che popolo saremmo?
Mancano, all’appello, i poeti, gli eroi, i santi, i pensatori, gli scienziati, i navigatori e i trasmigratori: gli artisti, al Valle, la loro parte (…) la stanno già facendo.