“Il tizio della tomba accanto” di Katarina Mazetti
di Cristiana Saporito / 7 ottobre 2011
Lo sguardo ricurvo, le carezze dei fiori sul marmo. E le mani incollate in qualche preghiera.
Da un cimitero non ci si aspetta molto di più. S’intonano i ricordi, li si accorda col vento, li si tiene sospesi su quella lapide e poi li si osserva mentre pedalano in aria, da un capo all’altro dei numeri incisi.
Non c’è spazio per i colpi di scena. Tutto è già stato scritto: inizio e fine.
E per il mentre solo pochi minuti. Eppure, a volte, anche lì i miracoli accadono.
Almeno per i vivi. O comunque sembra essere questo il teorema de Il tizio della tomba accanto (Elliot), primo romanzo pubblicato in Italia di Katarina Mazetti, “giovane esordiente” di quasi settant’anni per il nostro pubblico.
Desiree staziona davanti al marito, un compagno perfetto e poco ingombrante con cui vivere era quasi un copione, perfettamente incastrato tra le due parti e così fluido da scorrere via, senza detriti.
Desiree non è straziata. È piena di rabbia. Perché le mancano quelle abitudini, l’odore paterno e un po’ narcotico dei loro passi sincronizzati, quel cercare l’altro con moderazione, annusandone i confini, quel volersi bene quasi geometrico, fatto di certezze ed equilibri specchiati.
Orjian è stato investito, ovviamente senza preavviso, e lei si ritrova da sola, coi suoi trentacinque anni squillanti, il suo lavoro di bibliotecaria e un divano intristito in cui sorseggia tisane e strisce di sole.
Nell’attesa che un giorno replichi l’altro, senza spartiti né note ribelli.
Benny è un silvicoltore, orfano di madre e di tre dita. E con le sette rimaste munge le vacche e le sue mattine.
Sa di erba pestata e fortore bovino. Legge soltanto il tempo del cielo e al massimo Vite dei Campi, che non è la raccolta di Verga, ma una rivista bucolica, con simpatici inserti su latte e liquami.
Sono l’uno accanto all’altra, vicini di sepolcro, eppure non potrebbero essere mai più distanti.
Con troppi mondi in mezzo a quei centimetri.
Lei è sottile, così tanto da sfuggire anche agli occhi, lui la vede slavata, la vede appena e lei lo scruta con fastidio, perché non è avvezza a una pelle così ruvida. Come se fosse l’anticamera del cuore.
Eppure basta un sorriso. Uno di quelli “da scolaretta”, uno di quegli attimi che scalciano sui denti e disarcionano ogni norma. Des e Ben si colgono davvero, per la prima volta.
Si trovano ad amarsi senza soluzione, finché lo “shock culturale”, lo stesso universo che li aveva insospettiti fin dal primo incontro, non prende il sopravvento. Con un finale fuori dalla porta di scontate previsioni.
Lo stile è rapido, sarcastico e frizzante, eccellente contraltare del giallo svedese e della sua notte polare.
È l’altro lato della luna, l’ironia capace di grattare il freddo o di scavarsi nel suo petto una nicchia confortevole. Un focus brillante posato sul Nord-Europa di oggi, (per certi versi simile a tante altre terre), dove è facile liquefare il contatto, parlarsi via mail, pubblicare senza sosta la propria intimità e non farsi conoscere realmente. Dove il clima porta a irrigidirsi, a ripararsi dentro casa o dietro uno schermo. Dove i single sono un esercito. Che vorrebbe qualcuno, ma non riesce a trattenerlo.
Dove si prova a indossare la vita degli altri, come un cappotto più tiepido.
Come fa Inez, l’anziana collega di Desiree, che colleziona dettagli qualsiasi di persone a lei prossime: biglietti, scontrini, giornali, frammenti che abitano il suo spazio vuoto, per provare a capire qual è il profumo dell’altro. Uno scorcio di Svezia comune, lontano dal sangue sotto la neve, dal clamore di un crimine efferato. Dove il solo delitto, forse, è la solitudine.
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