C’ero (e non mi andava d’andarci).
Sì, alla manifestazione del 15. Col Teatro Valle Occupato, dietro al carro. “Punta” a San Lorenzo, il quartiere più bello di giorno che di notte (non mi piace la movida: preferisco il movimento). Si allestisce, si pensa, si prevede e provvede, si mastica/dissimula (mai alimenta) tensione.
Cos’è questa tensione? Il mio appartenere/non appartenere? La mia coerenza che vacilla? Un rigurgito marziale di ranghi, blocchi, ordini… un istinto di vigilanza?
No. Ho capito che tensione è: quella del ruolo. Nuovo. Strada torna strada, uomo torna uomo, idea torna azione. Solo in un gruppo e senza un ruolo, si torna ciò che l’uomo è: interazione con l’ambiente. Tabula rasa e stilo. Senza, stavolta, che altri venga a dirci, sollevandoci dall’impaccio, cosa fare.
Dipende tutto da me, oggi. Dipende tutto da noi.
Poi, Sapienza: tanti. Guardie: affatto ostili. Discrete. Penso complici, ma è parola connotata e la cancello. Mi scappa, credo, una carezza mascherata da un “Mi scusi, permesso…”.
Così sarà, col nostro troncone, miracolato forse dalla Provvidenza o scortato dallo stile non ostile della sua proposta alternativa. “Siamo colorati, siamo belli, siamo allegri: voi siete neri e tristi”. E sorrido. Io, il teorico della cazzimma, del muro contro muro, della mandibola serrata e dello sdegno pro-attivo… sorrido. E penso “Sì, hai ragione!” uomo sul “mio” (finalmente!) carro. Si può, reagire allo stato di cose. Siamo “operatori della cultura”. Io non recito, non ballo, non canto, ma ordino parole e regalo conforto. So a quali pagine dirigere chi cerchi sollievo o un pretesto per piangersi via dolore e frustrazione. So amare e far amare. Questo è l’Umanesimo, e io ne sono parte. E me lo ricorda l’uomo sul carro.
Sorrido alla potenza di questa meravigliosa semplificazione. Il riflusso è immediato: “Sai che ci fai, con la bellezza…”. E invece no. Chi parla di lassù parla a nome di chi fa, ha fatto, e continua a fare. E non per il solo bene suo, ma per quello della maggiore porzione possibile della comunità cittadina. Vacci, al Valle: lo sentirai all’istante. E ti piacerà. Non in blocco, ché la perfezione non è di questo mondo; t’irriteranno magari le stesse cose che irritano me, o altre, e ci irriteremo a parlarne, ma ti piacerà. Ne sentirai la vivalità.
Chi parla dal carro vive l’alternativa. A suo modo, certo (potrebbe essere altrimenti?): ma la crea, la sostanzia, la offre. E ti proclama che si può fare. Basta volerlo, davvero, e assumersi oneri. Personali. Investire. Convincere (magari no) anche chi liquida ogni alterità sulla scia del proprio sconforto e del proprio disincanto. O del proprio fallimento.
Ho capito, eccolo il punto: il carro è scortato dalle muse, soddisfatte. Il carro è scortato dalla propria bellezza. Etica, perché fondata su un’esperienza est-etica. Il carro, con contagio di generosità (e istintiva assunzione di responsabilità genitoriale), scorta a sua volta: dietro ci sono gli studenti. E il carro si fa per loro chioccia festante, scudo colorato e ariete in una Roma deliberatamente alternativa a quella di fumogeni e scontri. Dai quali li terrà sempre lontani.
Surreale, fendere di canti e gioia strade sgombre d’auto (grazie, guardie). Transitare dopo ore su luoghi di scontro e devastazione accolti da applausi. C’è gente alle finestre, che si sbraccia. Qualcuno porge, oltre ai sorrisi, acqua e cibo. Incantevole, prendere una rampa della tangenziale a piedi. E, per ore, non un poliziotto uno a sorvegliare. Forse perché non ce n’era bisogno. Forse perché quello stile è contagioso, e rasserena.
Io ho sfilato con gente che non si lamenta. Che non scassa ma ripara (ricicla, riduce e riusa). Che offre e si offre. Artisti. Forse li vorremmo sempre solo sul palco, obbedienti al nostro telecomando e in quota budget per il sollazzo del weekend. Forse li temiamo, quando in strada ci travolgono con l’immediatezza del loro sentire istintivo sbattuto in faccia senza tanti riguardi al chi al come e al dove. Molesti, per il nostro ordine. Ci pongono innanzi la subitanea consapevolezza della totale non necessità di un agire dolorosissimo: sacrificare il piacere al bisogno di sconforto.
Quello che alimenta il tran-tran. Che impedisce di ricordarti che basta alzare gli occhi a un tramonto, piegarli alla pagina di un libro o scriverne tu una pagina per ritornare a ciò che sei.
Il bisogno di sconforto ti impedisce di soddisfare i bisogni veri. E ci caschi. Smetti di pensare, diventi voyeuristico: guardi per ore le foto degli scontri, leggi le opinioni, ti indigni di idee non tue, valuti pro e contro dell’insorgenza, violenta o meno. Ti arrendi a ciò che ti viene offerto al basso costo di un click e dimentichi quello che vuoi davvero ed è ben più dispendioso: partecipare.
Vuoi un ruolo. Vuoi sovvertire creando. Abbandonando la prudenza. La triste, triste prudenza.