“Le passioni dell’anima” di Raffaele Simone
di Marianna Solari / 8 novembre 2011
«È una rara fortuna, per chi lavora a un romanzo, scoprire che la storia è stata già scritta da qualcun altro, magari dal protagonista e dai personaggi principali», ed è proprio questo il caso di Raffaele Simone per Le passioni dell’anima: un dettagliato e reale epistolario seicentesco, a cui mescola, con abilità, interpolazioni e apocrifi, per dare luce al buio viaggio in Svezia di René Descartes, alias Cartesio, il filosofo del «cogito ergo sum», il matematico della geometria analitica, il fisico della “materia sottile”, l’astronomo del “mondo infinito”, di cui l’autore cita anche preziosi passi estrapolati dall’omonimo trattato.
La Regina Cristina di Svezia, che dopo la vittoria della Guerra dei Trent’anni aveva «riempito la corte di dotti ed eruditi», per tre anni supplicò l’arrivo di Monsieur Descartes presso la sua corte luterana, per «adottarlo come maestro e istitutore personale» e possibilmente «trattenerlo in Svezia per gli anni che gli restano». Finché il 1° settembre del 1649 egli lascia l’Olanda imbarcandosi alla volta della «terra degli orsi» insieme al suo valletto Schlüter.
Si rivela una traversata pericolosa, in cui il capitano Cordovero deve domare violente piogge e incessanti schiaffi di vento, così forti «da impedire (…) ogni attività del pensiero» e indurre al delirio.
Nonostante le difficoltà Descartes inizia a scrivere un “diario di bordo”, le cui parole di inchiostro si dimostrano sin da subito bagnate di malinconia e paura:
«Il viaggio a Stoccolma pare infatti la fase suprema delle peregrinazioni in cui la mia vita consiste. Ho passato l’esistenza ad allontanarmi da qualcosa, a staccare gli ormeggi da qualche molo, a vedere coste allontanarsi in silenzio: prima dalla mia città natale per il collegio di Le Flèche, poi a Parigi, poi in guerra in Olanda, poi in Inghilterra, in Germania, in Italia, poi daccapo in Olanda (…), ma con il prezzo di non poter mai dire, di una casa, “Questa è mia”, o, d’una donna, “Ecco mia moglie”. (…) ho rinunciato (…) a tutto, in cambio della scienza e della ricerca della verità».
Arrivato a Stoccolma, al posto del suo caro amico Monsieur Chanut, ambasciatore di Francia in Svezia, colui che aveva caldeggiato quel viaggio, ad accoglierlo ci sono il bibliotecario reale, Monsieur Freinsheim, e l’Abbé Viogué, «Missionario apostolico nelle terre del Nord», che lo conducono nell’alloggio a lui riservato, unelegante appartamentodei coniugi Chanut.
Presto incontra la Regina, dalla «bella bocca sinuosa e vivaci occhi celestini»,dal cui apparente pallore«si intravvedono però (…) i segni di un’aria bellicosa… (…) una persona di vasta dottrina (…) ma insofferente della disciplina di corte, animata da un’insaziabile sete di sapere e (…) cavallerizza e cacciatrice di abilità quasi maschile», nonché ballerina, educata in tutto dal Cancelliere Oxenstierna. Nel suo castello, quello di Tre Kronor, «anche i muri hanno orecchie» grazie a «una fitta rete di dotti acustici per ascoltare tutto».
Inizialmente Descartes se ne sente attratto: «portava una vestaglia da camera morbida e profumata, di cui senza volerlo ho apprezzato il vellutato, dato che mi s’è accostata più dell’usuale e m’ha (…) strofinato col tessuto, sotto al quale ho avuto l’impressione di sentire il morbido del suo corpo».
Ma la «“Minerva del Nord” o “Pallade svedese”» ben presto si accorgerà di non nutrire più alcun interesse versol’illustre filosofo, «una delle persone più candide, pur nella sua superba genialità»: le basterà tenerselo a corte come un trofeo, una «bizzarria da Wunderkammer», in fondo «dice che vorrebbe che i suoi sudditi fossero come (…) pupazzi animati, a cui basta dare la carica perché si inchinino, salutino e facciano passi di danza».
Demoralizzato per le attenzioni che non riceve e per le dicerie sul suo conto, Descartes si isolerà nel suo alloggio nella disperata attesa che quel gelido inverno finisca per poter tornare nei fecondi lidi natii.
Tra audaci dipinti di Correggio, sogni piccanti, candele accese, intrighi, spie e veleni, gli unici veri svaghi per il filosofo «di maniere sceltissime» saranno le sue assidue corrispondenze con la Regina Elisabetta di Boemia, l’ironia e l’estro del pittore Machado, l’inaspettato affetto per un gattino e il sensuale calore al cioccolato di Madame Chanut.
L’attesa però si farà estenuante: «Di notte nevica: dopo poco la neve è fatta di ghiaccio opaco e livido, incrementando così il freddo. La vita sembra annichilata da questa temperatura, come fosse essa stessa ghiacciata e privata di ogni vibrazione. (…) dalle finestre entra un fiato gelato fatto di spilli. (…) (Quale Dio potrò invocare in un cielo color del piombo?)». In effetti nessun Dio lo salverà dalla sua sorte: imprigionato come la farfalla nel suo «dadino d’ambra», si spegnerà lì, probabilmente ucciso da chi covava per lui la peggiore delle passioni, l’Invidia, che il filosofo «pur avendone scritto sembrava non conoscere quasi affatto».
D’altronde, quando salpò dai mari d’Olanda, per i suoi amici «Quel cielo di zinco sembrava un presagio», forse perché «La filosofia (…) abbandona il colore e la vita e si infila nelle parti silenti e pallide delle cose».
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