“Kafka sulla spiaggia” di Murakami Haruki
di Francesca Solito / 10 dicembre 2011
«Qualche volta il destino somiglia a una tempesta di sabbia che muta incessantemente la direzione del percorso. Per evitarlo cambi l’andatura. E il vento cambia andatura, per seguirti meglio. Tu allora cambi di nuovo, e subito di nuovo il vento cambia per adattarsi al tuo passo. Questo si ripete infinite volte, come una danza sinistra col dio della morte prima dell’alba. Perché quel vento non è qualcosa che è arrivato da lontano, indipendente da te. È qualcosa che hai dentro. Quel vento sei tu. Perciò l’unica cosa che puoi fare è entrarci, in quel vento, camminando dritto e chiudendo forte gli occhi per non far entrare la sabbia. Attraversarlo, un passo dopo l’altro. Non troverai sole, né luna, nessuna direzione, e forse nemmeno il tempo. Soltanto una sabbia bianca, finissima, come fosse fatta di ossa polverizzate, che danza verso in alto nel cielo. Devi immaginare questa tempesta di sabbia».
Una tempesta di sabbia è il libro Kafka sulla spiaggia di Murakami Haruki (titolo originale Umibe no Kafuka, 2002), pubblicato in Italia da Einaudi.
In questo lavoro Murakami mostra il suo genio nel costruire mondi irreali, paradossalmente in grado di mostrare una realtà. Un immaginario visionario, ai confini del metafisico e del surreale che ci ricorda l’esistenza di un corrispettivo mondo possibile, altro.
Sin dagli esordi letterari la rappresentazione di un mondo “altro” dove si condensano ricordi, sogni e fantasie, è l’aspetto fondamentale della sua narrativa. Si tratta di una dimensione subconscia ma altrettanto tangibile e concreta rispetto a quella reale, ambivalente per i suoi aspetti al contempo affascinanti e terrificanti.
«Ciò che è fuori di te è una proiezione di ciò che è dentro di te, e ciò che è dentro di te è una proiezione del mondo esterno. Perciò spesso, quando ti addentri nel labirinto che sta fuori di te, finisci col penetrare anche nel tuo labirinto interiore. E in molti casi è un'esperienza pericolosa».
In quest’opera la narrazione si dipana su due binari, da principio nettamente separati ma destinati a trovare un raccordo finale. Due protagonisti, due intrecci narrativi: il giovane Tamura Kafka e l’anziano Nakata. Tamura Kafka, ragazzo maturo e determinato come un adulto, decide di scappare di casa il giorno del suo compleanno, andando in una città lontana nel Sud del Giappone, per fuggire da una profezia pronunciatagli dal padre: «Ucciderai tuo padre e giacerai con tua madre e tua sorella».
Nakata, un vecchio analfabeta con l’ingenuità e la spontaneità semplice di un bambino, trascorre la sua vita fatta di piccole abitudini quotidiane e animata a volte da conversazioni con i gatti, con i quali riesce a parlare usando il loro linguaggio; gatti che notano la sua «ombra densa circa la metà delle persone normali». Dopo l’inquietante incontro con il personaggio Johnnie Walker, impietoso ed efferato assassino di gatti, Nakata compie un delitto contro la sua volontà e fugge dalla sua città natale. Nel corso del suo viaggio si dirige istintivamente verso il Sud del Giappone, dove sente misteriosamente di essere chiamato a svolgere un compito.
Con percorsi paralleli, i protagonisti del libro raggiungeranno ognuno il proprio destino.
La narrativa di Murakami sembra basarsi sulla tragedia di Edipo, soprattutto nella strutturazione dei protagonisti dei due intrecci: il primo, Tamura Kafka, incarna l’Edipo in fuga da Corinto – in questo caso Tokyo – oggetto di una profezia che lo vedrà assassino del proprio padre e amante della madre. La ricerca di un rifugio da questo destino porterà Edipo-Kafka nel luogo del compimento della tragica maledizione, la città di Tebe, ovvero, la biblioteca Komura. Il secondo, Nakata, impossibilitato ad essere autosufficiente e supportato dal giovane Hoshino, un ragazzo conosciuto per caso ma che finirà per essere una figura familiare e di fondamentale aiuto durante tutto il corso della narrazione, ricorda l’Edipo che a causa della sua cecità è costretto a fare affidamento sulla figlia Antigone.
Ma nel libro non vi è nessuna enfatizzazione della supremazia del Fato greco o dell’inesorabile castigo come conseguenza dei crimini commessi. Murakami infatti conclude la sua tragedia dando grande importanza al fattore della volontà umana.
Haruki Murakami, insieme ad altri autori noti, a lui contemporanei e connazionali, come Ryu Murakami e Banana Yoshimoto, venne inizialmente molto criticato a causa della sua internazionalizzazione. Oe Kenzaburo (1935) che definisce il Giappone ambiguo (aimaina) perché mosso, dopo la seconda guerra mondiale, verso una modernizzazione tesa all’imitazione del modello occidentale, diceva, a proposito della scrittura di Murakami, che essa non è veramente giapponese, «se tradotta in angloamericano può essere letta a New York»come fosse letteratura americana. Tant’è che a Murakami è riuscito in qualcosa che a lui, benché abbia ricevuto il premio nobel nel 1994, è sempre risultato impossibile: farsi conoscere da un vasto pubblico all’estero. Ci si chiede se sia giusto, ai fini dell’internazionalizzazione, sacrificare la propria specificità. Ma la profondità della tradizione giapponese non è sostituita da qualcosa di superficiale e insensibile. La tradizione resta e, al suo fianco, abbiamo capolavori letterari come quelli di Murakami in cui le parole si trasformano in immagine, odore, suono.
«La sabbia bianca del tempo scorre dalle fessure tra le dita della ragazza. Si sente il rumore di piccole onde che si infrangono contro la riva. Si sollevano, si abbassano, si rompono. Si sollevano, si abbassano, si rompono. Poi la mia coscienza viene risucchiata in una specie di corridoio buio».
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