“La ventunesima donna” di Martino Ferro
di Cristiana Saporito / 10 gennaio 2012
Quando un numero diventa un libro. E poi un tormento. E la storia di tutta una vita. Amaro e sferzante come chi sa che l’unica soluzione a volte è non farsi troppe domande. A meno che non voglia annegare nella ricerca. Un gioco di spezzoni che compongono lo stesso identico dubbio.
Mi sono seduta. E ho recitato la mia ordinazione. Come al ristorante. Con la sola differenza che stazionavo davanti alla mia libreria. Ma in fondo non ne riscontro molte altre. Ci si apposta nel luogo prescelto e s’interroga lo stomaco. Anche quando si legge. Soprattutto quando si legge. E attraverso le pagine si accumula il conto. Stavolta avevo voglia di destino. Tanto, poderoso, esfoliante, di grano duro. Quello che sembra ineludibile, che scivola lungo le spalle e finisce nel caffè, dopo averlo bevuto. Così ho scelto. Ho percorso la trama del mio scaffale e sono incappata in lui. O in lei. La ventunesima donna (Einaudi) di Martino Ferro.
Ventuno capitoli ossessionati da quel numero. E da un uomo, Raffaele Stella, che lo rincorre lungo i suoi incontri. Incerto, scarmigliato, anche senza bisogno di menzionare i capelli, perché quello è uno stato dell’anima, ben al di là dell’acconciatura.
Proprietario di un negozio di fotografia al centro di Firenze, il protagonista si snoda attraverso le sue amanti, nomi sbiaditi, infilatisi per caso in mezzo alle coperte. Come acari dalla forma più gentile.
E altri dirompenti, entrati al solo scopo di abbattere la porta. E rovesciare tutto il resto.
Ester Rafael, per esempio, speculare e temibile anche all’anagrafe, che travalica la soglia di un giorno qualunque, quando era tutto in ordine, tutto sistemato, una vita al posto giusto.
Raffaele aveva già assunto la sua segretaria, una collaboratrice perfetta, puntuale, affidabile e capace. Ma al colloquio arriva anche lei. E ciò che c’è intorno fa solo volume, diceva Flaiano.
Ester lo inghiotte senza curarsene, ingurgita gli angoli ben appuntiti, sovverte il suo matrimonio, lo annega col mignolo e s’insedia tra le suecosce, tra le sue cose, senza alcuno sforzo.
Ma Raffaele cerca il 21, impigliato in un viso notturno, dentro Eleonora, in un letto stordito di cui ricorda poco e di cui ha visto ancora meno. La sorte per lui ha la faccia di due cifre, di un corpo da disseppellire, di una carta da zingara. La sorte è una legge e lui vuole obbedirle.
La ventunesima donna è quella definitiva, odora di profezia. E dopo cambierà tutto.
Così ogni ragazza è solo un gradino per raggiungere lei. Probabilmente. Ma lungo le scale cammina la storia. La sua e quella del libro, in cui confluiscono materiali diversi: brevi testi teatrali, piccoli articoli, immagini, sms, infinite varianti del raccontare, spunti di apertura e di “persecuzione”, che, mentre ruotano intorno all’oracolo di due decine e un’unità, rivelano tutto lo smarrimento di un uomo.
Che ha bisogno di un segno e delle sue costellazioni. Un segno per un senso. In una moltiplicazione che spesso non accresce il risultato finale. Raffaele invecchia, si ammala d’insicurezza, fino a farsi ricoverare.
E continua a scavare tra le lenzuola della memoria, fino alla fine. Perché crede che quel numero possa salvarlo. O chiudere il cerchio. Restituirgli una risposta evaporata ogni volta. Schiantata per terra con l’ultimo tonfo.
Questo è il romanzo di chi si aggrappa a un messaggio. E lo trasforma in poco tempo nella sua missione. E interpreta anche il vento secondo quel dettaglio. Perdendosi tanto, a volte anche troppo.
Scritto con ritmo e sapienza, veloce come una corrente e pieno di detriti, una vicenda narrata in modo potente e impietoso, consapevole che il cuore non si riordina come un armadio e che in molti momenti fatali il caos è il solo principio regolatore.
Sono molto soddisfatta della mia lettura. La richiudo e la ripongo nella sua collocazione. Poi conto i libri che lo precedevano. E lui è il ventunesimo.
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