“Hugo Cabret” di Martin Scorsese
di Piera Lombardi / 20 febbraio 2012
«Mi piace immaginare che il mondo sia un unico grande meccanismo. Sai, le macchine non hanno pezzi in più. Hanno esattamente il numero e il tipo di pezzi che servono. Così io penso che se il mondo è una grande macchina, io devo essere qui per qualche motivo. E anche tu!»
Forse il mondo non è un unico grande meccanismo dotato di senso come lo racconta il giovanissimo Hugo Cabret all’amica Isabelle; piuttosto è ridotto a unico grande caos, unico grande labirinto. Di certo però il film del già premio Oscar Martin Scorsese, ora “incappato” in undici nomination, è un meccanismo perfetto, un meraviglioso prodigio dagli ingranaggi strabilianti che contiene solo i numeri di pezzi che servono, non uno in meno ma neanche in più. Opera di un superbo orologiaio del cinema che rende omaggio, sequenza dopo sequenza, alla settima arte. Se Marcel Proust nella sua vasta fatica letteraria andò alla ricerca del tempo perduto, Scorsese dopo tanti anni di carriera cinematografica di altissimo livello e di sorprendenti mutazioni, stavolta “esordisce” nel tridimensionale per andare alla ricerca del cinema perduto, quello delle origini. E ci riesce, lo trova, perché il suo film è insieme apologia del sogno ed esso stesso sogno integrale: cinema di immagini come estensione dell’immaginazione, proiezione onirica incessante a cominciare dalla scelta cromatica che caratterizza tutta la pellicola. Ambienti dai colori carichi, in prevalenza nelle sfumature dell’arancione, del marrone e dell’azzurro (irresistibile la divisa dell’ispettore di stazione), a rammentare l’origine fumettistica del cinema quando la pellicola era dipinta a mano fotogramma per fotogramma.
Il pretesto per cimentarsi con il 3D è stato offrire a un pubblico formato famiglia la traduzione cinematografica di una bizzarra grafic novel, scritta e disegnata dallo scrittore Brian Selznick (La straordinaria invenzione di Hugo Cabret, Mondadori) che altrimenti sarebbe rimasta sconosciuta al grande pubblico. Scorsese però è andato oltre il compito ben svolto, la trasposizione riuscita da un genere a un altro di un soggetto già di per sé intriso di magia. Ha realizzato un film che è manifesto e testamento insieme, dichiarazione di poetica, celebrazione della settima arte e del suo artefice, dopo i fratelli Lumière, George Méliès: prestigiatore, illusionista, inventore del cinema come finzione anziché rappresentazione, e del montaggio, padre degli effetti speciali, pioniere a cui tutti siamo debitori di tante emozioni pur senza conoscerlo, qui interpretato da un sublime Ben Kingsley.
Scorsese intesse un continuo discorso meta-cinematografico, cinema nel cinema, tra continui rimandi e citazioni (dalla proiezione dei fratelli Lumière del treno che entra in stazione e atterrisce gli spettatori in sala aun Harold Lloyd di Preferisco l’ascensore nella celebre scena in cui sta appeso all’orologio che è riproposto nelle sequenze finali e che richiama analoga situazione-espediente da parte del giovane protagonista del film, fino agli omaggi a Charlie Chaplin, Buster Keaton, F. W. Murnau, Fritz Lang, Federico Fellini per citare quelli più evidenti). Se talvolta il film diventa didascalico è scelta voluta per poter offrire agli spettatori non esperti un affresco godibile della storia del cinema attraverso la vicenda di George Méliès. Tutto calato in una trama originale e magica che suggestiona e ipnotizza, proprio come i numeri di illusionismo di Méliès, spettatori di ogni età. È la vicenda di un bambino (il bravissimo esordiente Asa Butterfield) che negli anni ’30 del Novecento, dopo aver perso entrambi i genitori, vive alla stazione di Parigi nascosto tra i mastodontici ingranaggi degli orologi che sa aggiustare grazie agli insegnamenti di uno zio. Il suo vero e unico motivo per cui vivere è un automa meccanico guasto che stava tentando di riparare con il padre prima che morisse, ed è tutto ciò che gli resta di lui. In esso Hugo crede di trovare, una volta riparato, un messaggio del padre. Ma il proprietario del negozio di giocattoli della stazione gli sottrae il taccuino contenente le istruzioni per sistemare l’automa. Il bambino pur di recuperarlo fa amicizia con la figlia adottiva del giocattolaio, Isabelle, una bambina come lui amante dei libri di Jules Verne e Mark Twain e, manco a dirlo, del cinema. Insieme, i due riescono ad aggiustare l’automa e decifrare il messaggio contenuto. In una scena di grande forza lirica l’automa disegna l’atterraggio di un’astronave nell’occhio della luna (lo stesso del famoso film fantastico di Méliès, Viaggio nella luna del 1902) con tanto di firma: George Méliès. Si scopre che il giocattolaio, in realtà è il pioniere della storia del cinema.
Computer grafica e tecnologia sono al completo servizio della narrazione fantastica, non c’è nulla di forzato e l’uso delle tre dimensioni in ogni sequenza non è esibizionismo ma necessaria soluzione artistica. La scena d’avvio del film con la carrellata dall’alto fino a lambire i viaggiatori fermi sulla banchina della stazione già di per sé è un’opera d’arte che vale il prezzo del biglietto. Oltre lo straordinario Ben Kingsley nella parte di Georges Méliès, ci sono riuscite figure di contorno, come la musa-moglie, l’ispettore, il bibliotecario o l’umanità varia che affolla la stazione. L’abilità di Scorsese sta nell’aver fuso reale e fantastico: negli anni ’30, successe veramente che tale Léon Druhot, giornalista e direttore del Cine-Journàl, scovò George Méliès in un chiosco di dolci e giocattoli della stazione di Paris-Montparnasse, lo sottrasse all’oblio restaurando e proiettando i suoi film. Guarda caso Scorsese si è dedicato negli ultimi anni più che alla regia al restauro di film del passato e alla divulgazione della storia del cinema attraverso documentari. Questa vicenda dunque lo riguarda personalmente da cinefilo quale è.
Hugo Cabret è creatura del cinefilo e del regista che ama la sua arte. Il cinema, sembra dirci la narrazione filmica, è tante cose insieme: via iniziatica per il personaggio bambino e l’umanità bambina, recupero della memoria, archivio di immagini, meccanismo vivente, anche quando sembra morto, dato in pasto solo agli affaristi. Il burattino che è il movente della ricerca del tempo perduto non è che metafora del film, mezzo meccanico ma vivo che si può resuscitare in ogni istante se si ha la chiave d’accesso (come Hugo e Isabelle fanno con l’automa) per arrivare al cuore del suo funzionamento. Scorsese sembra anche volerci dire che cinema e cinefili non fermano l’avanzare del tempo (ingranaggi e lancette incalzano in ogni scena inarrestabili), non salvano il mondo né lo preservano dalla guerra (la prima guerra mondiale è presente in tutto il racconto), né le ingiustizie sociali o la malvagità umana. La cinefilia, però, come l’immaginazione creativa può unire persone distanti nel tempo e nello spazio, formare famiglie nuove (come accade a Hugo con George) o comunità virtuali, fare emergere sentimenti integri e puri. Elogiando il cinema con un uso sapiente e poetico delle tecniche più avanzate, unite a una trama fantastica, Scorsese apre dunque un nuovo sorprendente capitolo nella storia del cinema in piena continuità con il suo avo, il suo alter ego del secolo scorso. Il cinema è illusione, prodigio, incanto, viva macchina delle meraviglia e del sogno anche nell’epoca del digitale.
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