“Morire di memoria” di Emiliano Monge

di / 20 marzo 2012

Prendete un ricordo, un groviglio di ricordi. Provate a dargli una forma e una durata, un valore temporale. La risposta che vi darete avrà le stesse caratteristiche di questo romanzo: un labirinto impalpabile all’interno del quale il tempo non scorre, ma si dilata.

Morire di memoria è proprio questo: un labirinto le cui pareti sono delimitate dai ricordi del protagonista, che si susseguono senza apparentemente seguire un ordine né una logica, si interrompono a vicenda, si fondono, si intrecciano fino a formare un puzzle disomogeneo, del quale intuiamo il disegno solo alla fine e del quale, forse, ci mancherà sempre un tassello. Impalpabile, come solo una narrazione può essere, soprattutto se atipica come questa, priva di avvenimenti e reali personaggi, ma piuttosto costruita sull’assenza, su quel vuoto che popola la memoria quando al ricordo si contrappone la tenebra dell’oblio: «Perché ricordo tanta vita e non le ore scorse, perché la mia mente si riempie di lacune, mi chiedo con le palpebre abbassate, mentre vedo il rosso dell’incendio che imprigionato nei corpi non si spegne».

L’assenza filtra infatti da ogni poro del romanzo, l’interminabile monologo interiore di un uomo che, una mattina, si sveglia all’improvviso sopraffatto da una domanda: «Non me l’ero mai chiesto. E così presto, è proprio bello chiedermelo così presto. Il fuoco è un lampo che poi non si spegne. Se mi fossi potuto vedere la fuori avrei visto le fiamme nei miei occhi. Cos’ho sognato che mi sono svegliato chiedendomi chi sono». A posteriori, rileggendo l’incipit, è possibile cogliervi la cifra dell’intera storia, di una trama che però si svela poco a poco, dilatando sia il tempo della narrazione che quello della lettura.

Il romanzo si snoda su una doppia tensione: l’impulso a ricordare, fortissimo nella mente del protagonista, si scontra con il presentimento del pericolo che ogni oggetto della memoria rappresenta; parallelamente, il leitmotiv del fuoco riappare in ogni episodio rievocato, come motivo di attrazione e, allo stesso tempo, di pericolo e sconfitta. Al corpo a corpo del protagonista con i suoi ricordi – e l’irresistibile tentazione di colmare i vuoti inventandone di nuovi –, con il caldo e con le ore di veglia, corrisponde un corpo a corpo del lettore con il testo, che attrae e respinge come le fiamme dalle quali è animato. Pochi sono i dettagli che riusciamo a intuire, quasi stessimo spiando scene di intimità da uno spioncino; la morte del fratello, la fine di una relazione, un senso di colpa sfumato, latente, l’ossessione di ricostruire (o reinventare?) ogni istante di vita vissuta. «Perché sento che oggi devo fare l’inventario della mia vita», è solo una delle innumerevoli domande che il protagonista si pone.

Qual è il tempo di un ricordo? A che velocità scorrono i pensieri che ci affollano la mente? Queste sono i quesiti ai quali sembra voler rispondere Emiliano Monge raccontando, in circa duecento pagine, tre ore della vita di un uomo. Tre ore tormentate, ripetitive, scandite da un sole infausto e da rumori minuscoli che paiono assordanti. Tre ore che non si consumano, non passano. In questo dichiarato intento di rompere le barriere temporali, il tempo della narrazione non sembra defluire ma solo dilatarsi indistintamente, espandersi in ogni direzione, a macchia d’olio, andando a coprire i dettagli che il narratore decide, di volta in volta, di incorporare alla storia.

«Questa è l’ora in cui le ore non corrono, in questo momento abito l’istante che ricordo, la memoria ha solo il presente», ecco l’unico punto fermo in un’infinità di riflessioni incerte: il tempo della memoria è il presente, non vi è un passato da rievocare, né un futuro da anelare.

Con un’attenzione maniacale per il linguaggio, rispettata appieno nella traduzione italiana, Monge riporta in Messico quegli echi di avanguardia che si erano assaporati negli scritti di Juan Rulfo. Morire di memoria è una sorta di Finnegans wake contemporaneo che, senza ricalcare l’estremismo di Joyce, riflette una rara pluralità di voci e aspettative. L’io si confonde con il noi, passato e presente coesistono in un flusso di coscienza dal ritmo incalzante, che a tratti sfiora la poesia.


(Emiliano Monge, Morire di memoria, trad. it. di Chiara Muzzi, La Nuova Frontiera, 2011, pp. 182, euro 16)

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