“Occidente solitario” di Martin Mcdonagh
di Luca Errichiello / 2 aprile 2012
Trattando di fratelli si trattano l’odio e l’amore, la viscerale violenza e la sanguigna dipendenza. Ciascuna di queste parole, ciascuno di questi concetti, si affaccia nella mente di chi legge questo testo, con migliaia di differenti declinazioni, nel tentativo di immaginarne le modalità di messa in scena. Perché dietro una viscerale violenza non c’è semplicemente la zuffa tra due fratelli irlandesi con un padre appena morto in circostanze misteriose, ma probabilmente si potrebbero immaginare corpi tesi e membra che si contorcono su se stesse anche nel più profondo dei sonni. E ancora queste parole non basterebbero per descrivere come la sanguigna dipendenza dei due giovani cambi con i giorni e con le stagioni, assumendo ora la forma di abbracci fin troppo tenaci, ora quella di false scuse immeritate. Sarebbe dunque estremamente difficile riuscire a dipingere questo affresco familiare con la giusta decisione, ma senza dimenticare di tratteggiare le debolezze su cui il ritmo pulsante della violenza poggia. Ebbene, queste mie parole, che a ogni nuova riga costringono ancor di più l’immaginazione di chi legge e immagina lo spettacolo, dovrebbero avere il fine di fallire nel loro tentativo di descrivere la mutevolezza e la complessità dinamica di ciò che è stato visto. Invece la sensazione è esattamente contraria. La sensazione, a dirla tutta, è di aver visto una fissità senza precedenti, che nel suo monotono ritmo non riesce mai a trovare qualche variazione significativa. I personaggi rimangono costantemente abbarbicati alla loro stantia vita di periferia, esattamente come gli attori, legati a modalità recitative fisse, nonostante la variazione di contesti. L’impressione è dunque quella di assistere a uno spettacolo a una sola dimensione: la variabilità la si cerca nella più o meno violenta esternazione di un fratello nei confronti dell’altro, nel più o meno congruo numero di volgarità in un dato momento. Si percepisce un tentativo di ricreare atmosfere torbide, chiuse, opprimenti, in cui l’alcolismo si intrecci con onnipresenti ossessioni, in cui le bottiglie d’alcol facciano da contraltare a madonne di plastica, ma tutto questo affonda in un terreno psicologico a dir poco paludoso. I personaggi, visti nella prospettiva unidimensionale, risultano piatti e privi di consistenza e delle opprimenti atmosfere, a cui pure le musiche potrebbero rimandare, non rimane altro che la possibilità irrealizzata. Lo scarto rispetto al teatro fisico che ha fatto mostra di sé in passato sul palco del Nuovo Teatro Nuovo è immenso. Della tragica, struggente fisicità vista nel pasoliniano Bestia da stile di Antonio Latella è rimasta solo la cornice di vuota violenza volgare. Allo stesso tempo Occidente solitario, ricordando Due fratelli di Fausto Paravidino, per l’unità di spazio chiuso e per il rapporto triangolare dei due fratelli con una ragazza, non riesce minimamente ad accostarsi a quest’ultimo né per tecnica attoriale, né per spessore registico.
Occidente solitario
di Martin Mcdonagh
traduzione Luca Scarlini
regia Juan Diego Puerta Lopez
con Claudio Santamaria, Filippo Nigro, Nicole Murgia, Massimo De Santis
Andato in scena al Nuovo Teatro Nuovo di Napoli dal 27 marzo al 1 aprile 2012
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