“Tutta la vita” di Alberto Savinio

di / 7 aprile 2012

Che ad alcuni uomini sia riservato il destino di nascere come “cadetti” d’una grande famiglia è già un’ingiustizia, una delle tante che attendono il nascituro alle soglie della vita, e diviene condanna qualora ai diritti del primogenito si aggiungano doti umane, politiche o artistiche di qualche valore. Non dev’esser stato facile dunque per Alberto Savinio liberarsi dell’ombra pingue e ingombrante del fratello Giorgio De Chirico (due fratelli, non a caso, separati da un diverso cognome), benché oggi è forse lecito dubitare dell’effettiva superiorità artistica del primogenito sul cadetto. In questo caso, la raccolta di racconti Tutta la vita (Adelphi, 2011) è una bella testimonianza del talento letterario di Savinio e della sua inusuale capacità di penetrazione del microcosmo dell’inanimato. Potreste leggere e rileggere i suoi racconti e non trovare nemmeno un tentativo d’indagine psicologica degli uomini e delle donne che, loro malgrado, si ritrovano al centro delle vicende narrate. In realtà, ciò che interessa Savinio, non è il mondo triste e plumbeo degli uomini, ma quello ben più interessante e animato degli oggetti, o meglio, la visione che gli oggetti hanno della vita umana. Nei racconti è sempre presente un vivace formicolio di mobili, poltrone, suppellettili e strumenti musicali, in contrasto con la staticità palustre di un’umanità scipita e meschina.

L’immobilità della vita umana, coartata dentro gli angusti confini di convenzioni, cerimonie e classi sociali, risulta ancor più incomprensibile quando la si osservi dal punto di vista di un oggetto. In ciò, Savinio non viene meno alla tradizione surrealista europea, in cui la percezione del mondo è rinnovata e vivificata da un continuo spostamento del punto di osservazione, sino a giungere a uno straniamento che riabilita quello “stupore della realtà” che è la base stessa dell’arte.

Il racconto più rappresentativo in tal senso è forse “Poltrondamore”. Il commendatore Candido Bove (quasi una caricatura del Candide voltairiano, laddove il cognome “Bove” dissacra l’invocata ingenuità illuministica trasformandola nell’ottusità mansueta delle bestie) si ritrova da solo nel salotto buono della sua casa piccolo-borghese a piangere la moglie Teresa, morta qualche giorno prima. Nel silenzio della stanza, Candido inizia a udire delle voci, qualcosa come un chiacchiericcio che sembra provenire dal salotto stesso. Sono strane voci, come «voci di stoffa». La vecchia poltrona di casa, l’unica poltrona in stile Ottocento sopravvissuta a un recente rinnovo dell’arredamento, credendo assente Candido, conversa con i mobili più giovani, raccontando degli innumerevoli amanti che la signora Teresa portava in casa e con cui aveva rapporti proprio sopra di essa, al punto tale da averle consumato tutte le molle. Inutilmente la poltrona su cui è seduto Candido, impossibilitata a parlare proprio dalla grossa mole del commendator Bove, tenta di avvertire la poltrona Ottocento. Quando essa riuscirà a scrollarsi di dosso l’uomo e finalmente ad avvertire la poltrona pettegola sarà troppo tardi: Candido Bove, invece di riflettere sul fatto di aver sorpreso un prodigioso e segreto momento di vita delle cose, lui che s’era sempre aggirato ignaro in mezzo ai misteri, si avventa con ottusa ferocia sulla poltrona Ottocento dilaniandola con le sue mani grassocce e i suoi denti finti. Dopo qualche giorno, al rientro della governante, Candido Bove viene ritrovato riverso in terra, ucciso dalla sua stessa rabbia. Alla fine, Savinio commenta amaramente: «Perché gli uomini cedono alle più grosse impressioni fisiche, ma sono troppo rozzi ancora per fare attenzione a quel che di più sottile e ineffabile circonda la nostra vita; non sanno ascoltare le voci delle cose che nella loro ignoranza essi credono mute».


(Alberto Savinio, Tutta la vita, Adelphi, 2011, pp. 241, euro 12)

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