“Le cinque rose di Jennifer” di Annibale Ruccello

di / 24 aprile 2012

Cosa è successo tre mesi fa alla vita di Jennifer? Jennifer è immersa nel cemento di un complesso di edifici residenziali, in cui l’unica possibilità di interazione è basata sul rapporto telefonico. Paradossalmente però anche questo legame è distorto e le linee telefoniche si accavallano, continui scherzi infastidiscono, mentre le telefonate tanto attese approdano a destinatari non cercati. Eppure tre mesi fa è successo qualcosa. La vita di Jennifer sembrava aver subito una scossa. Lentamente il testo di Annibale Ruccello ci fornisce nuovi dettagli sugli eventi passati, eppure questi rimangono sempre ammantati da un’aura di impalpabilità. È successo qualcosa, ma cosa? Su questa domanda fa perno il presente, anch’esso sbiadito, come le pareti dell’appartamento di Jennifer, bianche e uniformi, come l’arredamento della casa di Jennifer, costruito solo sui suoi movimenti. Anche nel presente, nel presunto “fuori” della vita della protagonista, sta succedendo qualcosa dai contorni sfumati: un assassino si aggira nel quartiere di cemento popolato da transessuali e la radio fornisce i tristi annunci di nuovi omicidi. Il telefono è il veicolo delle speranze, ma anche delle ansie di Jennifer. Per questo tale oggetto diviene premio agognato della competizione con Anna, la vicina di casa, anch’ella in attesa di una telefonata, vittima di un’esistenza solitaria, ma sempre ostentatamente e falsamente fiera. Forse tre mesi prima Jennifer ha conosciuto l’uomo della sua vita in una discoteca. Forse tre mesi prima un certo cavalier Antonetti ha incontrato una certa Luana. Forse tre mesi prima Anna ha messo un annuncio su un giornale. Oppure questo segno tracciato sulla sabbia del tempo è stato già cancellato da un colpo di vento e nessuno potrà mai sapere se qualcosa è successo, tre mesi prima come tre anni prima. L’unica dimensione sempre esistita è l’attesa struggente e le lacrime che ne definiscono i contorni.

L’individuo senza tempo e senza luogo, Jennifer (Benedetto Casillo), non può che porre un confine alla sua esistenza, senza il quale sarebbe annichilito dalla scoperta del suo stato. In questo senso la sola cosa di rilievo è che gli avvenimenti di tre mesi prima siano esistiti nella mente autocentrica di Jennifer. L’assassino intanto si avvicina, fa nuove vittime, il telefono squilla ancora, e la voce all’altro capo è sempre quella sbagliata. Anna (Franco Javarone) accusa invece Jennifer della morte della sua gatta, pur parlando chiaramente di se stessa. Jennifer si trascina ora, striscia nel suo appartamento. Ora che i suoi movimenti sono assenti è evidente anche l’assenza degli oggetti, tranne il telefono, che squilla ancora, metafora di un mondo delirante forse inesistente agli occhi degli altri, ma realmente sempre teso alla comunicazione. Pierpaolo Sepe sceglie la formidabile mimica e l’evocativa gestualità di Benedetto Casillo per creare il mondo di Jennifer in un palco adornato dal solo colore delle cinque rose rosse, che Jennifer ha comprato nell’attesa del suo amante. È questa una scelta che forse sottrae al personaggio di Ruccello la corposità che era evidente nella precedente messa in scena di Arturo Cirillo, ma sicuramente ha il merito di cogliere l’aspetto centrale della protagonista: il suo essere in bilico su un mondo da lei stessa generato. Sul palcoscenico campeggiano solo i mastodontici e monolitici nomi di Jennifer e Anna, proprio a sottolineare la totale pervasività del nome – e quindi dell’individuo – nella sua realtà, fondata solo su se stesso. Cosa c’è infatti oltre il nome di una persona sola nella sua vita solitaria? Nulla, solo cornici senza foto, appartamenti senza mobilio e rose senza destinatario.


Le cinque rose di Jennifer
di Annibale Ruccello
regia di Pierpaolo Sepe
con Benedetto Casillo e Franco Javarone

Andato in scena dal 12 al 22 aprile presso il Nuovo Teatro Nuovo di Napoli.

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