“Le nostre assenze” di Sacha Naspini
di Chiara Gulino / 9 giugno 2012
Storia di ordinaria vendetta. Una frase efficace e diretta che potrebbe funzionare come sottotitolo all’ultimo romanzo del talentuoso scrittore grossetano Sacha Naspini, Le nostre assenze (Elliot, 2012), poiché ne racchiude la sostanza e l’anima.
Questa vendetta nasce da un tradimento che sarà solo il primo di una lunga serie che coinvolgerà più o meno tutti i personaggi di questo spiazzante romanzo. Un tradimento che tocca qualcosa di sacro quale può essere l’amore fra padre e figlio, un amore perverso che promette solo dolore e il perpetuarsi della crudeltà. Perché l’amore all’interno della famiglia è come un appuntamento al buio e non è detto che ci si piaccia. Si è costretti a vivere forzatamente insieme, a condividere bagno e tavola da pranzo, a sopportare i difetti degli altri, nonostante spesso non ci sia alcuna affinità. Metti poi che ti capita di nascere invece che in America, benché tua madre pensi tu sia protetto da papa Giovanni apparsole in sogno dentro una nuvola bianca quando era incinta, in una periferia toscana degradata tra Riotorto e Follonica dove c’è un aldiquà e un «al di là della rete», confine che divide i poveri dai «pezzenti» delle case popolari, quei «parassiti. Insetti schifosi che vivono di espedienti alle spalle della gente. Sanguisughe. Ratti di fogna che ti spolpano a poco a poco mentre dormi». Da lì viene l’unico amico dell’io narrante, che all’inizio del racconto è un bambino grassoccio di sei anni già arrabbiato con tutto il mondo per via di quello scherzetto, tirato un po’ troppo per le lunghe, che gli ha fatto il nonno, «che adesso se ne stava disteso in una bara, con un velo trasparente che lo riparava dalle mosche».
Questa è solo la prima delle assenze con cui dovrà fare i conti il protagonista. Le altre presenze ci sono, ma è come se non ci fossero. I genitori sono troppo giovani per sapere come badare a un «fusto giovane che cresce storto senza una guida nel terreno per tendere dritto verso il cielo» e mantenere in piedi il loro matrimonio. C’è poi la nonna materna dell’Abruzzo, «cartomante toscana» tra gli zingari, che, dopo aver lasciato marito e figlia a quarant’anni, non fa che parlare del suo primo e indimenticabile amore. C’è l’altro nonno, l’abbandonato, che aveva fatto la seconda guerra mondiale ed era riuscito a sfuggire alla deportazione e alla morte grazie a un amico di Parma sepolto in terra tedesca e che si era ripromesso prima o poi di riportare in patria.
Sono tutti aneddoti, questi dei nonni, che si accavallano alle vicende principali, immettendo una nota favolistica e distensiva in una storia nera come l’inferno che ti scava dentro e ghiaccia ogni calore umano. Con grande sapienza narrativa e acume psicologico, in una lingua secca ma altamente evocativa, l’autore intreccia gli eventi dando vita a un crescendo di tensione e sospensione per cui è un peccato svelare i particolari di una trama ben congeniata.
Si sappia solo che tutto inizia quando il ragazzino protagonista (senza nome) scopre, dopo una perquisizione dei carabinieri in casa, che, dietro l’apparenza di un dignitoso lavoro all’Enel, il vero mestiere del padre è quello del tombarolo, saccheggiatore di preziose antichità. Buca delle Fate è infatti una frazione circondata da una campagna onusta di antichi segreti, perché lì «quando i contadini scassavano la terra dei campi, venivano su delle monetine mezze cancellate. O saltavano fuori dei bronzetti da una zolla rappresa che se ne sta lì sepolta da centinaia d’anni a quaranta centimetri dalla luce». Un vero tesoro si cela sotto il fango e le radici di alberi secchi e ritorti.
Il protagonista e Michele, l’amichetto sudicio, però magro e bello, con il quale ha una relazione complessa fatta di complicità ma ancora più di ostilità («Michele giocava con i miei scarti, si vestiva con i miei scarti. Se litigavamo per qualcosa, alla fine avevo sempre ragione io»), iniziano nel doposcuola un gioco assai pericoloso e gravido di conseguenze tragiche.
Se tutti i punti di riferimento sono labili e impalpabili oppure cadono miseramente, diventa difficile per un bambino discernere ciò che è bene fare o meno e quale tra le scelte possibili sia quella più giusta e innocua per sé e per il prossimo. Si aggiunga poi il cinismo che a volte nei ragazzini si rivela essere estremamente spietato (chi non ricorda i gemelli della Trilogia della città di K di Ágota Kristóf?).
A partire dalla seconda parte, Naspini cambia registro e lo scenario si amplia dalla Toscana all’America, «opportunità mancata», poi ritrovata e persa di nuovo. La narrazione subisce una accelerazione e si è inghiottiti in una spirale di forti emozioni. Il protagonista si trova a dover lottare con due segreti che conosce lui solo e che finiranno per condizionarne la vita e il destino suo e di molte altre persone. Il rancore verso il padre finirà per macerarlo, rendendolo duro dentro e fuori, incapace di valutare la situazione da una prospettiva diversa che non sia la sua, un rancore che lo schiaccia e lo schianta, tenendolo sveglio la notte tra i tormenti.
L’ultima e terza parte è un dialogo fra un padre, ormai invecchiato, e un figlio, che ha la stessa sua età di quando lo abbandonò, modulato sul registro del rammarico tra rabbia e rimorso, che ci mostra cosa può accadere a due persone che hanno un forte legame emotivo se tra loro si crea il vuoto. La sua sarà una vendetta dura e terribile, una «vendetta cieca, quella sangue morti e distruzioni, senza requie». Metterà in atto l’unico insegnamento ricevuto dal genitore, «sparire dalla vita delle persone, dopo averle devastate».
(Sacha Naspini, Le nostre assenze, Elliot, 2012, pp. 192, euro 16)
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