“Fuga in blu” di Jakuta Alikavazovic
di Giulia Zavagna / 11 giugno 2012
Basterebbe soffermarsi sull’idea di contaminazione espressa dal Londra-Luxor, cinema dal nome evocativo situato nel centro di Parigi, per inquadrare l’intero romanzo. Già, perché l’essenza di Fuga in blu, la prima opera di Jakuta Alikavazovic tradotta in Italia, è proprio questa: l’impalpabile mescolanza di storie, nomi, professioni e origini differenti, che sembrano intrecciarsi silenziosamente, quasi all’insaputa di chi li incarna. E ogni riga, ogni parola del romanzo ne è impregnata, fin dalle primissime pagine: «La storia dell’edificio è indissociabile da una storia di scarti. Eppure il Londra ha sempre portato Luxor dentro di sé (sfingi di pietra, bassorilievi, papiri) e questo cambiamento di nome di profila secondo alcuni come una piena realizzazione. Lo spazio si schiude come un fiore. Dal trattino (stupendo geroglifico, meraviglia incurvata alle due estremità, inciso nella pietra, delle dimensioni di una mano, ma assolutamente disumano), da quella distanza quasi abolita, emana un’energia strana che i più superstiziosi sostengono porti alla follia. Questa lettura manca di rigore scientifico». Quasi ci stupisce, questo prologo dedicato ad alcune «osservazioni sull’architettura dell’edificio», e le leggiamo un po’ dubbiosi, forse impazienti di tuffarci nella storia vera e propria. Solo a posteriori riusciamo ad assaporarlo e a coglierne l’assoluta adeguatezza, quando ci rendiamo conto che l’essenza del romanzo era già tutta concentrata lì. Perché il Londra-Luxor, che non a caso dà il titolo all’edizione originale del libro, in francese, non è solo il locale intorno al quale gravitano tutti i personaggi che animano la storia – anche quelli che fisicamente non vi appaiono mai – ma è anche, e soprattutto, la metafora delle loro esistenze, transitorie, come tutte: quasi un non-luogo, sospeso nel tempo e nello spazio, e per questo casa di molti, casa di profughi e migranti.
Una scrittrice che non scrive una parola, un critico che ha deciso di smettere di leggere, un Mimo messicano che si nutre di silenzio e mezcal, un Vicepresidente di chissà quale istituzione. E poi, Ariana, che non appare mai, che è scomparsa eppure si impone, prepotente, nella narrazione: sembra essere presente nel libro forse anche più di Esme e Anton, i due protagonisti. Una sorella che non dà più traccia di sé, dunque, e una patria lontana, perduta, dai confini ormai confusi. Sullo sfondo, in filigrana, a volte appena percettibili ma costanti, i ricordi di una guerra, di tragiche storie familiari, di esodi e Balcani: «Le cose come sono non sono visibili, si sono perse in una serie di divisioni, di fughe, di riflessi. Un paese si riflette in un altro, una lingua materna (dimenticata) in una lingua d’uso (acquisita), un paese di origine perduto, impossibile da ritrovare nella somma dei suoi frammenti». Eppure, la vita va avanti, scorre, e forse non esclude la felicità, anch’essa effimera.
Un romanzo costruito sull’assenza, appunto, sulla fuga, come ci suggerisce il titolo. Un romanzo in cui tutto è accenno, tutto è illusione: ipnotizzante come un’ombra in movimento dietro una tenda, come il fruscio di un lungo vestito, affascinante, a tratti malizioso, ma sempre sfuggente. Lieve, nei contenuti e nell’uso di un linguaggio delicato e ironico, in un raro equilibrio tra fluidità e bellezza, brillantemente reso in traduzione.
Delicato è forse l’aggettivo che meglio si addice all’intero romanzo, non letteratura d’esilio, non una storia di guerra: piuttosto lo spaccato di un’affollata e astratta epopea dal sapore balcanico, o forse, semplicemente, il racconto di come le frontiere siano mobili, e i solchi tracciati dalla storia profondi.
(Jakuta Alikavazovic, Fuga in blu, trad. di Alice Volpi, Transeuropa, 2012, pp. 176, euro 13,50)
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