“Paradiso e Inferno”, di Jón Kalman Stefánsson

di / 14 giugno 2012

«Mette a rischio la vita, leggere poesie»

Non c’è alcuna Circe che possa mettere in guardia dal potere ammaliatore del canto delle sirene in Paradiso e Inferno (Iperborea, 2011), meraviglioso romanzo di formazione dello scrittore islandese Jón Kalman Stefánsson, finalista del Premio von Rezzori. Soave come quel canto è la poesia. Chiunque l’ascolta trova la morte.

Paradiso e Inferno è un racconto mitico del passato che ha un che di atemporale, narrato da un “noi” che viene da lontano, voci di morti che però sono «quasi tenebra», rimasti come bloccati in un non luogo a metà tra regno dei vivi e regno dei morti, veicoli di ricordi e dispensatori di parole salvifiche: «Le nostre parole sono come squadre di salvataggio che non rinunciano alla ricerca, il loro scopo è riscattare gli eventi passati e le vite spente dal buco nero dell’oblio».

In un paesaggio mozzafiato quanto inospitale, si rivela tutta la spietatezza di una natura indifferente ai destini umani che ricorda quella leopardiana del Dialogo della Natura e di un Islandese, anch’essa una quest sul senso della vita e sulla possibilità o meno di felicità su questo mondo. Una terra di pescatori che lottano ogni giorno con il freddo, le intemperie e l’amato/odiato mare, sostentamento e costante minaccia di morte: «Non esiste quasi niente di più bello del mare nelle giornate serene o nelle notti terse, quando anche lui sogna e la luna è il suo sogno. Ma il mare non è per niente bello e lo odiamo più di qualsiasi altra cosa quando le onde si alzano anche di dieci metri sopra la barca, quando i frangenti la travolgono e il mare ci beve come miseri cuccioli. E lì tutti sono uguali».

Non sono ammesse distrazioni, i piaceri banditi. È rischioso a morte ogni margine di errore. Così, quando poco prima del suono del corno che dà il via alla partenza notturna delle barche sull’Artico, Barður, giovane marinaio dalle spalle possenti e dagli occhi scuri del sud, si perde nell’incanto dei versi del Paradiso Perduto di Milton e si dimentica la cerata per ripararsi dal gelo della notte polare assassina, sancisce inesorabilmente la sua stessa fine. Una improvvisa tempesta di neve, che stravolge l’orizzonte non rendendo più distinguibili cielo e mare, sorprenderà la sei remi di Pétur, uscita a pesca di merluzzo. A nulla serviranno gli sforzi per riscaldarlo del suo giovane amico, il “ragazzo”, come viene chiamato senza che mai venga reso noto il nome, anch’egli amante della lettura e dotato di una sensibilità sconosciuta ai rozzi e ignoranti uomini di mare. Ogni gesto altruistico in tali circostanze non è ripagato con altra moneta che non sia la perdita della propria vita. «Nulla mi è delizia, tranne te». È il verso del Paradiso Perduto che Barður ha scritto la sera prima nella lettera all’amata Sigriður e che ha cercato di ripetere come un’ossessione poco prima di imbarcarsi. «Nulla mi è delizia, tranne te», ha mormorato prima di spirare. Parole capaci di consolare ma anche letali perché «le parole da sole non bastano e finiamo per perderci nelle lande desolate della vita».

Da qui, da questo punto di rottura, da questa prima prova, parte il viaggio iniziatico del ragazzo alla ricerca dell’«essenza delle cose, qualunque essa sia». Dopo il lutto del padre, annegato quando lui aveva solo sei anni, e quelli recenti della madre e della sorellina, ecco un’altra perdita che mette a repentaglio il superamento di quella “linea d’ombra” necessaria per crescere e per continuare a vivere. L’essere per la morte, per dirla alla Heidegger, diventa per il ragazzo una realtà e una possibilità entrambe tragiche, vissute ora per ora. Ma prima deve restituire il libro traditore al suo legittimo proprietario, un burbero e singolare capitano divenuto cieco proprio come Milton e possessore di una biblioteca di ben quattrocento libri. Il ragazzo parte per il Villaggio, vero «centro del mondo» per gli spiriti islandesi, affrontando i pericoli delle pareti rocciose a strapiombo sul mare tante volte affrontati insieme al suo amico, fianco a fianco, «perché le orme che procedono appaiate sono segno di solidarietà e allora la vita non è più tanto solitaria». Troverà ad attenderlo alla locanda del Villaggio una «trinità profana», formata dal capitano cieco Kolbeinn e dalle divinità femminili, Helga, la domestica scontrosa e taciturna venuta da Reykjavík, e Geirþrúður, la ricca vedova chiamata «Mamma Corva», per via degli occhi neri come il carbone e i capelli lunghi e corvini, ma dallo sguardo reso ingannevolmente innocente dalle efelidi sul naso. Intrattenitrice notturna dei capitani di passaggio, intorno a Geirþrúður aleggia un’aurea leggendaria: «Il corvo è una creatura dell’inferno, sta scritto da qualche parte, ha preso il volo, nero come il carbone, dalle fauci del diavolo, che gli ha prestato la voce e la scaltrezza». Sono personaggi eroici e imperfetti, mitici e realistici, sospesi fra Paradiso e Inferno. 
Cosa sceglierà il ragazzo tra vivere o morire?

Paradiso e Inferno è un’intensa e coinvolgente meditazione sul significato metafisico dell’esistenza. La risposta su che cosa sia la vita non viene data, viene solo suggerito che potrebbe essere «implicita nella domanda, nello stupore che cela in sé».


(Jón Kalman Stefánsson, Paradiso e Inferno, trad. di Silvia Cosmini, Iperborea, 2011, pp.240, euro 16)

  • condividi:

Comments

News

effe

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

Archivio