“Non c’è ritorno” di Jim Shepard
di Giulia Zavagna / 13 ottobre 2012
Dieci racconti, legati dal fil rouge dello sport, ma non solo. Una narrazione netta, precisa e coinvolgente; uno stile profondamente americano, ereditato senz’altro da quell’America che conosciamo attraverso Carver e Yates. Non c’è ritorno (66tha2nd, 2012) di Jim Shepard, racconta questo e molti altri mondi.
Il solo fatto che si tratti di una raccolta di racconti – selezionati tra i migliori di Shepard, da quattro diverse antologie – basterebbe a farci soffermare su questo titolo, che rappresenta una scelta quantomeno audace in un panorama editoriale che relega la narrativa breve a qualche rara eccezione o alla ricerca delle riviste letterarie. Se la scelta prettamente tematica dovesse anche solo per un istante lasciarci perplessi, è l’autore stesso, nell’introduzione, a specificare che non solo di sport si tratta: «Lo sport mi è utile perché sono interessato a massimizzare la pressione che le mie storie esercitano sulle situazioni emotive dei miei personaggi, e cerco sempre di dare corpo a quel genere di conflitto in modo concreto. I limiti e le regole dello sport offrono inoltre alla narrativa una forma propria, con la quale poi si può giocare, così come una propria imminenza, dal momento che qualcosa di importante – e drammatico – sta per accadere». Ci è subito chiaro, quindi, che l’ossatura della raccolta non sta nel fattore tematico, ma piuttosto nella struttura narrativa, salda e perfettamente costruita, in un teso equilibrio mantenuto proprio da una sensazione di imminenza costante: il timore di un altro punto a proprio svantaggio, la delusione di una partita che si sta per perdere, ma soprattutto l’imminenza di qualcosa di più profondo, tragico e irreparabile.
Una galleria di antieroi, che si alternano tra football, calcio, baseball, alpinismo, e nei quali si mescolano «in maniera piacevole e al contempo deplorevole, pulsioni mature e pulsioni infantili. Pulsioni sociali e pulsioni che ci isolano dal mondo». Lo sport qui non è che il correlativo oggettivo della catastrofe, con la quale Shepard si misura tanto a livello intimo e quotidiano, come nel commovente «Protoscorpioni del Siluriano», quanto a livello sociale, come ad esempio nel racconto che dà il titolo alla raccolta, che tratta da un’insolita prospettiva familiare la tragedia di Chernobyl. E forse è proprio da questi due poli opposti che non c’è ritorno: dall’estasi euforica che solo certe sensazioni estreme possono provocare – il sentirsi padroni di un mondo ghiacciato e irraggiungibile a ottomila metri d’altezza, per esempio – e dalla tragica solitudine che ogni tendenza simile impone. I due estremi si fondono al meglio nel racconto «La Polonia ci guarda», che tratteggia una pericolosa spedizione himalayana sul Nanga Parbat, e si rivela presto nient’altro che una riflessione sull’incapacità di gestire i rapporti affettivi.
Ciò che più stupisce di Shepard – oltre a un linguaggio estremamente nitido, dalla precisione millimetrica, che però non esclude mai il pieno coinvolgimento del lettore – è il suo incredibile mimetismo: attraverso un uso sapiente della prima persona, ogni racconto si apre su uno scenario differente, ma non per questo meno definito, credibile ed espressivo. La narrazione si muove agilmente da Pittsburgh a Cuba, dall’Alaska all’Ucraina, dando all’autore la possibilità di esplorare la sconfitta in ogni sua forma. Il male umano e la catastrofe naturale sono senz’altro gli sfondi più ricorrenti, e si uniscono in una tensione sottile ma costante, che non fa che rimandarci a quell’onnipresente sensazione di imminenza.
Una prosa la cui forza persiste oltre il tempo della lettura, lasciando una chiara traccia di sé tra lo stupore e l’amaro sapore di una serenità svanita.
(Jim Shepard, Non c’è ritorno, trad. di Tim Small, 66tha2nd, 2012, pp. 250, euro 16)
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