“Apostoloff” di Sibylle Lewitscharoff
di Federica Imbriani / 23 ottobre 2012
La casa editrice Del Vecchio pubblica nell’ambito di Narrativa, la collana dedicata agli scrittori contemporanei d’oltralpe, Apostoloff, di Sibylle Lewitscharoff. Il volume, che prima di ogni altra impressione, lascia una felice sensazione tattile di maneggevolezza, si annuncia con un titolo carico di aspettative messianiche e che rimanda all’immagine di copertina confondendo il lettore nel suggerirgli di avere a che fare con un romanzo on the road. Ma l’inganno si scioglie in fretta.
Già dalle prime pagine balza agli occhi che ci troviamo solo fisicamente seduti sul sedile posteriore di un’automobile in movimento. In realtà siamo all’interno della Figlia-di-Kristo dove il pensiero ha la forma di un romanzo perché la Figlia-di-Kristo e sua sorella hanno sempre vissuto di romanzi. Romanzi come finestre, come mattoni per solide mura, come pietre miliari. La testa della Figlia-di-Kristo non si ferma mai, è una testa pesante, piena di citazioni, di immagini, di incubi e di dolore, appoggiata su pistoni sempre in movimento che si alimentano dell’energia dell’umorismo nero all’interno di un capolavoro di ingegneria linguistica. È una testa nella quale il lettore non è il benvenuto. Nella testa della Figlia-di-Kristo non viene spostata nemmeno una sedia perché vi si accomodi.
Il flusso di coscienza magistralmente diretto da Lewitscharoff non è semplice da navigare. I pensieri sono riportati con estrema coerenza: difficilmente quando si elabora la storia che si sta vivendo ci si chiama per nome, quindi il lettore non conosce l’identità del parlante. Altre informazioni basilari, poi sono date semplicemente per scontate. Sappiamo che la Figlia-di-Kristo e sua sorella (anche il suo nome è sconosciuto al lettore) sono di ritorno in Germania una volta scioltosi il corteo che ha accompagnato un gruppo di riesumati emigranti bulgari e le loro famiglie nel viaggio di ritorno postumo in patria, organizzato da Tabokoff, un danaroso superstite. Questa vicenda però, nella stratigrafia del pensiero, quasi non ha importanza. I particolari del viaggio, quanti siano i partecipanti, l’identità dei vivi, la durata del percorso e il percorso stesso, lo apprendiamo, prestando attenzione, da indizi disseminati all’interno del romanzo. Al centro dei pensieri della Figlia-di-Kristo ci sono questioni più ingombranti.
Innanzitutto la Bulgaria. La Figlia-di-Kristo odia con forza ogni città e ogni paese che il terzetto di cui è parte attraversa. Il paese che l’automobile di Rumen Apostoloff percorre è bruttissimo e triste. La magia ha abbandonato la terra dei Traci e gli angeli si trascinano a terra senza ali. L’autrice descrive al negativo un paese denso di storia scorrendo con il dito le rughe di questa porzione di Vecchia Europa e soffermandosi ad accarezzare la Storia incarnata da icone carbonizzate, architettura sovietica e desolazioni post – comuniste. Da questa terra orribile e ripugnante germogliano i ricordi evocati dai fantasmi che il corteo funebre ha risvegliato.
Kristo, Cristo, Dio padre, il padre, sopra tutti, tiene il suo occhio spalancato sulle figlie. La Figlia-di-Kristo, accompagnandolo nella replica dell’ultimo viaggio, rivive la propria infanzia, costretta a elaborare nuovamente lutti e traumi infantili dallo svolgersi tortuoso del viaggio durante il quale sfoga la sua rabbia incontenibile contro la terra per vendicarsi del genitore. Il padre si è infatti impiccato dopo aver una lunga depressione costellata di tentativi falliti di suicidio. Sangue e corda è il padre che, aiutato da una madre fatta tutta di mani e disappunto, ha scavato un gorgo di sofferenza all’interno delle figlie. Questo padre è tratteggiato in maniera commovente: nonostante la protagonista sia una donna di mezz’età, pare non aver affatto costruito una narrazione lineare della propria infanzia così, con la voce della bambina, passa al microscopio episodi minimi che accadono ancora e ancora qui e oggi e, contemporaneamente, con la voce dell’adulta, riapre con poche parole ferite rimarginate di fresco.
Apostoloff è un romanzo denso, intrigante e insolente che al lettore chiede moltissimo, soprattutto l’impiego di tempo e di attenzione. Non è possibile farne una scorpacciata nei ritagli di tempo o sui mezzi pubblici, a meno di perdere la capacità di mettere a fuoco le immagini, di trovarsi persi tra le connessioni logiche, a volte pindariche, e di sentirsi orfani dei sentimenti che la protagonista violentemente accende e repentinamente spegne. In concreto Apostoloff si rivela un viaggio affascinante in un mondo a più dimensioni, purché si adottino le contromisure per scampare il mal di testa e la nausea del mal d’auto.
(Sibylle Lewitscharoff, Apostoloff, trad. di Paola Del Zoppo, Del Vecchio, 2012, pp. 248, euro 14)
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