[BioSong] “Sunday Bloody Sunday” degli U2
di Alessio Spedicati / 9 novembre 2012
Come un fendente subito a segno. In medias res direbbero quelli bravi. Parliamo della percussione di Larry Mullen Jr, è lei a mettere subito in chiaro le cose in “Sunday Bloody Sunday”. Ti ritrovi in un attimo dentro la storia, dove il contesto è un vera e propria battaglia: esattamente quella, rigorosamente impari, ingaggiata fra i paracadutisti britannici e i manifestanti irlandesi nella tanto maledetta – quanto famigerata – “domenica di sangue” del 30 gennaio 1972 a Derry. Un evento epocale per gli irlandesi, sotto vari profili, e Bono non si tira certo indietro nel metterci il muso a ritroso.
Qualche accordo e The Edge definisce del tutto un intro di rara incisività. D’altronde lo stesso cantante ammetterà che l’espressività di “Sunday Bloody Sunday” è data dalla potenza dei suoi accordi più che dalla forza dalle parole. Esercizio di modestia inconsueta per una rockstar? O è semplicemente vero che a dominare sono le oramai leggendarie sonorità? Sta di fatto che quello che poi diviene il primo tassello diWar, l’album della consacrazione del gruppo irlandese, entrato di diritto nell’immaginario collettivo del rock. Eppure non può essere solo la strumentalità, per quanto davvero convincente, a conferire alla composizione un ruolo tanto importante, addirittura decisivo a posteriori, per Bono e compagni. La forza è quella della rabbia giovanile, termine che in realtà non si addice poi tanto a Mr. Vox, già così predisposto a incanalarla verso energie non autodistruttive.
D’altronde quando la voce degli U2 afferma che questa non è una canzone di ribellione, conferma la lucidità con cui muove l’analisi verso un’ampiezza che non si ferma al caso contingente, verso un piano in cui il dolore si fa universale. Sono la brutalità della guerra e dell’odio nella propria connotazione quasi antropologica a essere messe in discussione.
Il caso da cui parte tutto è però ben chiaro: quella domenica del 1972 ti sconvolge per forza, e allora: «non posso credere a queste notizie, non riesco a chiudere gli occhi». E subito la citazione biblica sferzante e che diviene il vero simbolo musicale dell’intero pezzo: «How long must we sing this song?» Per quanto tempo dobbiamo cantare questa canzone? (concetto portante del disco, pensando alla chiusura con “40”). «Per quanto tempo» non è solo un richiamo al caso irlandese, evidentemente pregnante nella vicenda dei quattro ragazzi di Dublino, ma un’allusione all’orrore senza tempo della guerra. Le «bottiglie rotte sotto i piedi dei bambini e i corpi sparsi attraverso la strada della morte» non devono essere un alibi per entrare nel circolo vizioso del morto chiama morto: «non darò retta alla voce della battaglia». In questo verso si scorge tanto chiaramente, ancor più nella prospettiva di un trentennio dalla scrittura del testo, la straordinaria fermezza nel seguire una via alla pace staccata dalle armi. E nello specifico una via alla musica in cui sia ben presente la ricerca del senso, non cedendo mai il passo a produzioni effimere. Lo strenuo invito, il testamento ante littteram è già in “Sunday Bloody Sunday”, e con un filo sottile e d’acciaio giunge fino ad “Acthung Baby” e a un mondo senza Muro: «perché stanotte possiamo essere uno solo» (in tal senso “One” appare quasi un compimento).
La guerra non fa vincitori, lo sa bene Bono, di sicuro sono in molti a perdere, «ma dimmi chi ha vinto». Se non tutti perdono, tutti hanno ferite impossibili da rimarginare, perché la trincea è quella «scavata nel cuore e madri bambini, fratelli, sorelle sono lacerati».
Il pensiero non dimentica chi è dentro la storia, dentro la battaglia, stando attenti al pericolo, già avvertito nei primi anni ’80, della confusione fra tv e realtà; intanto «noi mangiamo e beviamo mentre loro domani moriranno».
Il dolore può portare alla disperazione, ma la resa non è contemplata: la risposta alla domanda su quanto ancora dovremo cantare questa canzone non è poi così ardua da scorgere. L’esempio è massimo, perché «Gesù vinse», nell’ambito di una neanche tanto velata provocazione che spinge a riflettere sull’unità intrinseca di protestanti e cattolici. Il paradosso risiede poi nel risultato pratico, con una canzone che dal 1983 viene cantata senza soluzione di continuità, e lo sarà ancora per molto. Tutto ciò perché “Sunday Bloody Sunday” è divenuta anzitutto manifesto, sganciandosi immediatamente da una repentina quanto mera reazione emotiva. Accordi e parole sono più che mai attuali, vivi. Allora come oggi è guardando oltre che «possiamo essere uno solo».
(U2, “Sunday Bloody Sunday”, War, 1983, 4’38’’)
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