“Gli ultimi eretici dell’Impero” di Vasile Ernu

di / 20 novembre 2012

Se la scrittura è viva e le cose che si raccontano interessanti, un romanzo epistolare – così possiamo definire Gli ultimi eretici dell’Impero (Hacca, 2012) – suona ancora come un’ottima concertazione per tenerci avvinti a una storia. O a molte storie, come nel caso di questa seconda uscita italiana del quarantenne romeno Vasile Ernu, del quale l’editore Hacca aveva tradotto un paio di anni fa Nato in Urss.

Molte storie si scambiano in effetti i due personaggi del libro, A.I., detto “Il Grande Istigatore” e Vasilij Andreevič, vicende del presente e fatti del passato, piccole storie e grandi segnaposti della Storia novecentesca, oscillanti fra il totalitarismo dell’Europa orientale e il disinganno delle democrazie liberali d’Occidente. Se il primo infatti, socialista convinto, prova persino a uccidere Stalin, e avuta la fortuna di scamparla in Occidente, trova che non si ci sia molto da stare allegri nemmeno qui, il secondo non esce per nulla soddisfatto dalla “rivoluzione” di Gorbaciov. “Il Grande Istigatore”, una volta lontano dal comunismo scopre quanto sia difficile per un uomo abituato a quel regime dover scegliere. Scoprire per esempio che la camicia appena acquistata in un altro negozio potevi comprarla a molto meno, e che in un altro quasi te la regalavano, ecco, ti vien voglia di riporla nel guardaroba e non vedertela più davanti.

Pure muoversi all’interno dell’ex impero comunista, ma fra paesi diversi riserva sorprese. Perché non riuscì al comunismo di sopprimere le differenze fra nazioni, lingue, culture. Così quando Vasilij Andreevič decide di abbandonare la Russia, deluso dalla perestrojka, per tornarsene in Romania, per quanto bene conosca la lingua non riesce a entrare in sintonia con il bascalie, «un genere di ironia beffarda che deride cose e situazioni di un certo peso»: fondamentalmente, non la comprende. E se la comprende, non la “sente”: il che ne fa un estraneo. Non direi difatti che sia la stessa ironia dell’autore, almeno di quella che egli trasferisce ai suoi personaggi, certo insieme più sottile e malinconica. Impegnata com’è a ripassare momenti capitali della tragedia del ’900. Fra vite private e orrori concentrazionari, fra instabili quanto agognate liberazioni (non mancano versioni slave di mitologie pansessuali e alcoliche) e acutissime analisi degli inferni carcerari. Per esempio il riassunto che Vasilij Andreevič fa dei Racconti della Kolyma di Salamov. Il quale rovescia il paradigma in auge della politica totalizzante. «Non sono la politica, l’ideologia, l’eccesso ad aver generato il Gulag, il totalitarismo, i dittatori, bensì la loro assenza».

Non stupisce, sostiene Salamov riletto da Ernu, che i blatnoi, criminali con un proprio codice interno, “altro” rispetto a ogni legge, siano quelli che nel Gulag la fanno da padroni. Perché impongono la loro di legge, quella della forza: esattamente l’antitesi della politica, uno dei cui scopi principiali dovrebbe essere quello di inficiare l’arbitrio della bestialità. Ma quando invece ci si sottrae, come da molti anni in Occidente, alla responsabilità dell’agire politico, per indifferenza e paura, per conformismo e disinteresse, quella bestia cresce. Per Ernu, come per Salamov, le colpe della cultura a questo punto risultano evidenti. Gli uomini che se ne sentono interpreti e protagonisti ma snobbano l’azione politica sono parte del problema.
 

(Vasile Ernu Gli ultimi eretici dell’Impero, trad. Anita N. Bernacchia, Hacca, pp. 440, 16 euro )

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