[BioSong] “Thunder Road” di Bruce Springsteen

di / 23 novembre 2012

«Lo so che è tardi, ma possiamo farcela se corriamo». È il richiamo dell’ultima corsa, quella verso la redenzione, quella verso una vita lontano da «una città piena di perdenti». Il tono epico di “Thunder road”, canzone che ha il compito non indifferente di dare il via al trionfo musicale ed esistenziale del ragazzo del New Jersey (dopo i primi due preamboli discografici), è palese fin dalla prima, struggente nota. Uno Springsteen alle prese con la preparazione dell’album che può e deve essere quello della consacrazione: «Volevamo fare il disco più bello mai prodotto» sono le parole dei componenti della E Street Band. Già, perché la nascita e l’uscita di Born to run, a dispetto dell’immediato e pazzesco successo (copertina di Time e Newsweek nella stessa settimana, un unicum o quasi nella storia della musica) non sono state una passeggiata di salute. I due album d’esordio accolti freddamente (pur con una reputazione dal vivo straordinaria) e la conseguente, enorme pressione (sottolineata dallo stesso cantautore in tempi recenti) che ne deriva rendono Bruce motivato al massimo grado e in preda a una ossessione quasi maniacale per la ricerca del dettaglio perfetto. È la grande chance (con la paura che possa essere l’ultima) per il disco di segnare lo squarcio decisivo per entrare nel firmamento del rock.

L’intero lavoro risente di questa atmosfera da ultima spiaggia. In positivo però, perché Springsteen è un vulcano di idee, come quella (che si rivelerà vincente) di asciugare gli arrangiamenti (horribile dictu per una band di rockettari incalliti) e permettere così alle canzoni di rappresentare ognuna un racconto in cui si descriva sì la specificità delle storie, ma che proprio per l’ambiziosa tematica del viaggio e della scoperta di sé deve respirare di eternità. “Thunder road” si inserisce perfettamente in un tale contesto, e la scelta di piazzarla in cima alla scaletta ha un valore che si spiega da sé. È l’introduzione ideale, quasi un’anticipazione dell’importanza di ciò che si ascolterà nei brani successivi. È l’incipit da urlo che ogni musicista ricerca, di quelli che al primo ascolto (in assenza di qualsivoglia banalità) lasciano immediatamente sbigottiti, per non dire innamorati. Note e parole si uniscono alla perfezione, avvolgendoti senza scampo.

Ora sei tu a decidere se mettere in discussione le certezze di sempre (se non ne hai, forse è più facile): «Questa strada a due corsie ci porterà ovunque vogliamo», d’altronde «abbiamo un’ultima possibilità per avverare i nostri sogni». Cresce il ritmo del canto, inizialmente quasi parlato, in intensità emozionale. Senti che sta per giungere il momento culmine in cui dovrai prendere le valigie e andare. L’urgenza è oramai impellente («se sei pronta a iniziare questo viaggio»). È un richiamo impetuoso, teso a scardinare verità ritenute fino a quel momento granitiche. Con un pensiero fisso: anche se non so dove andremo, possiamo farcela. È la terra promessa («stanotte cercheremo di raggiungerla») la scommessa da vincere, c’è da lottare, l’arena non lascia scampo a chi si perde in chiacchiere, in questa Thunder Road in cui ci si gioca tutto: c’è da starsene «in attesa, come un killer sotto il sole». È l’immagine del rocker che cerca la redenzione con rabbia e orgoglio, con una chitarra in spalla e tanta voglia di correre. Siamo pronti allora? Dai «Mary, salta dentro, è una città piena di perdenti, e io me ne sto andando per vincere».

A questo punto sei immerso nel viaggio e non puoi accostare con la scusa del mal d’auto. Ci sei e decidi di abbracciare la spinta che avverti dentro. Ci vuole ancora una cosa però, l’esplosione giusta per lanciarti verso la terra promessa. È da qui che emerge necessario il grande assolo di sax che solo lui, il compianto Clarence Clemons, può portare alle vette del rock eterno. Un momento finale di una potenza e commozione uniche. Ora sei assolutamente certo del valore dell’opera che stai ammirando. Sei così eccitato e convinto dell’unicità di quegli attimi, che senti il desiderio irrefrenabile di salire in macchina e ascoltare tutto il resto semplicemente andando. Semplicemente senza star fermo. Non puoi restare immobile, non con una canzone così.

“Thunder road”, il biglietto da visita migliore che si potesse avere, e c’è da scommettere che nelle redazioni di Time e Newsweek la decisone di inserire in copertina la faccia di Bruce abbia preso slancio già dopo aver assaporato questo primo, immenso pezzo rock. Quattro minuti e cinquanta secondi in grado di prenderti le impronte digitali e non lasciarti scappare (per molti è l’inizio di una fedeltà inossidabile verso Springsteen).

L’andamento strumentale e le parole sferzanti conferiscono allora un tono mitico al brano. Si ha la sensazione, fin dall’introduzione quasi cinematografica dell’armonica, che presto saremo dentro a un film pronto a indicarci che è non solo possibile, ma assolutamente necessario prendere quella strada, pena la perdita di se stessi; e malgrado i mezzi siano quelli che sono: «Ragazza, l’unica redenzione che ti posso offrire sta sotto questo sporco cofano». Una macchina, due cuori giovani e consapevoli allo stesso tempo che non c’è più tempo. Il momento di muoversi è adesso.

Ogni immagine di “Thunder road” si nutre di questo spasmodico bisogno di partire, di andare. C’è una redenzione da ottenere, la gloria è dietro l’angolo. L’alternativa è l’oscuro abisso del non senso, assai peggiore della morte fisica. Non è una mera fuga dettata dalla frustrazione di un ambiente che non riesce a farti uscire dal guscio. Non è la ricerca di un sogno effimero, spinto da passione cieca e travolgente. È molto di più. Sono la ricerca esistenziale e la voglia di assecondarla a essere in gioco. “Thunder road” ti chiama per nome e ti dice amico, vieni con me e proviamo a vedere dove ci porta questo viaggio.

Dopo trentasei anni il richiamo è più che mai attuale. Succede con le grandi opere, le uniche in grado di fermare il tempo, a volte scavalcandolo. Succede con le grandi canzoni. Succede con “Thunder road”.
 

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