“Io venìa pien d’angoscia a rimirarti” di Michele Mari
di Chiara Gulino / 6 dicembre 2012
«La Luna, caro fratello, è quanto di più lontano e insieme di più vicino c’è all’uomo».
La bellezza della natura, rappresentata dall’astro notturno che con la sua luce lattiginosa nutre e addolcisce le sofferenze dell’umanità dolente, acquista un significato diverso nell’ottica del soggetto contemplante che ne subisce al tempo stesso il fascino e l’esclusione, l’altera indifferenza alle sorti mortali.
Così la dipingeva muta, immobile nella sua gelida chiarità, Madre e matrigna, il grande poeta Giacomo Leopardi nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”: lì il pastore fa domande sul senso della vita a cui nessuno darà risposta, certificando la vanità del tutto, la rottura dell’armonia universale e la fine delle illusioni e speranze giovanili. È il pessimismo cosmico.
Se il sentire leopardiano incontra ancora oggi l’irrequieta sensibilità moderna con cui si legge la realtà, non può che destare grande interesse vedere il quattordicenne Giacomo agire come personaggio in un romanzo. È quello che ha fatto Michele Mari, filologo, collezionista di oggetti d’infanzia (biglie, figurine, pupazzi e tappi, feticci a cui trasferire buona parte della propria emotività) e cultore di fantascienza e fumetti, che, giocando con la letteratura, frustra nel lettore la bulimia di trama creando un apocrifo leopardiano. Poco importa l’intreccio anche se ci sono dei misteri e dei delitti. Ciò che resta è una scena, un pensiero, un’atmosfera.
Le sue sono storie antiche con la parvenza dell’eternità. Così in Io venia pien d’angoscia a rimirarti, romanzo pubblicato una ventina di anni fa da Longanesi (1990), quindi da Marsilio (1998) e ripubblicato ora da Cavallo di Ferro, un borgo selvaggio viene agitato nelle notti di luna piena dalla presenza di un lupo che nessuno ha mai visto. Ne è colpita in particolare la casa del conte Monaldo, la belva ha ucciso un garzone, promesso sposo di Teresa Fattorini, la figlia del fattore (la Silvia del celebre canto), e delle pecore, facendo imbestialire i cani.
In questo ambiente angusto e claustrofobico, tiranneggiato dalla severa e bigotta madre Adelaide, trascorre le sue giornate di studio «matto e disperatissimo», Tardegardo Giacomo Leopardi. Ce lo racconta il fratello Orazio Carlo sotto forma di diario. Anzi Orazio Carlo trascura i suoi di studi per sorvegliare il fratello e cercare di indagare, insieme alla sorellina Pilla (Paolina), l’angoscia che sembra turbare il giovane erudito, la stessa angoscia del verso di“Alla luna” messo a titolo del romanzo stesso, che nella poesia veniva mitigata dalla luce rischiarante del satellite naturale terrestre: «O graziosa luna, io mi rammento / che, or volge l’anno, sovra questo colle / ove venia pien d’angoscia a rimirarti: / e tu pendevi allor su quella selva / siccome or fai, che tutta la rischiari».
In particolare Mari per bocca di Orazio ci narra come sublimare il lato oscuro, la follia che ci abita e che quotidianamente ci sforziamo di tenere a bada con la ragione, la bestia o demone nascosto in ciascuno di noi in geniale creazione, affrontando così il tema letterario del doppio che ha il suo archetipo in Lo strano caso del Dr Jekyll e Mr Hyde. L’attrazione di Tardegardo per l’astro rimane inspiegabile, è forse suggestionato dalla ambiguità stessa della luna dai due volti, ora Diana, ora Persefone. Sotto tale influenza, il geniale ragazzino è inoltre tutto preso dalla stesura di un saggio sulle false credenze degli antichi e per questo trascorre ore intere nella famosa biblioteca paterna, intervallandole ora da brevi passeggiate in cerca d’ispirazione al suo caro colle con la siepe dell’infinito del borghetto natio, ora, strano ma vero, a esercizi ginnici nelle scuderie del palazzo. Il ragazzo è dibattuto fra la ricerca dell’«arido vero» e la legittimità di farne oggetto di poesia: «Or questo io voglio scoprire nel mio Saggio sopra gli errori popolari degli Antichi, questo io debbo, imparare a riconoscere il vero che si cela nel bello, e sceverando bello da bello nutrir me e i miei lettori della sapienza antica, che le paure ed i mali dell’uomo cristallizzò in favoloso sistema».
Non solo, ma Mari condisce la storia romanzata della famiglia del poeta di Recanati di un’atmosfera goticheggiante alla Edgar Allan Poe: un antenato, tale Sigismondo, di cui sopravvive un cupo ritratto in salotto, sembra fosse addirittura un licantropo, come scopre Orazio nelle carte della biblioteca del pedante e passatista Padre. Attraverso riscontri biografici, linguistici e filologici, Mari riesce a riprodurre tutte le specifiche stilistiche dell’italiano ottocentesco che fanno del romanzo un colto divertissement. Anche a un incallito cultore di Leopardi sfuggiranno tutte le svariate citazione dal poeta, autore effettivamente di un Saggio sopra gli errori popolari e di un Dialogo della Terra e della Luna.
Con una spiazzante invenzione metaromanzesca e aggirando le possibili preoccupazioni del biografo a vantaggio del romanziere, Mari muove un Leopardi che ulula alla luna e che forse solo la poesia salverà: «La poesia, quella che salvò in gioventù Torquato, forse salverà anche me…»
(Michele Mari, Io venìa pien d’angoscia a rimirarti, Cavallo di Ferro, 2012, pp.140, euro 12,90)
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