“Moonrise Kingdom” di Wes Anderson
di Francesco Vannutelli / 7 dicembre 2012
Torna Wes Anderson dopo il cartoon The fantastic Mr. Fox con Moonrise Kingdom – Una fuga d’amore.
Nel 1965 in un’isola del New England la sveglia del campo scout “Khaki” di Master Ward (Edward Norton) è turbata da un’assenza. Sam Shaluski non risponde all’appello mattutino. Nella sua tenda viene trovato un buco coperto da una mappa e una lettera di dimissioni da scout. Dal magazzino sono spariti una canoa e altra attrezzatura. Lo sceriffo Sharp (Bruce Willis), incaricato del caso, si troverà a dover cercare anche la giovane Suzy Bishop, scomparsa da casa poche ore dopo.
Un flashback ci informa che i due ragazzini si sono conosciuti l’estate precedente durante una rappresentazione parrocchiale del Noye’s Fludde di Britten in cui la bambina interpretava un corvo. Si sono innamorati, hanno iniziato a scambiarsi lettere e a pianificare una fuga d’amore.
Fuggono dal piccolo mondo in cui non si ritrovano lungo un antico sentiero dei nativi americani. Sam, orfano non dichiarato, non ha mai legato con nessuno, tantomeno con i genitori adottivi che lo hanno in affidamento da poco tempo. Fiero della sua cultura scout, non si è integrato nel campo di Master Ward dove ammette senza problemi di essere impopolare tra gli altri ragazzini. Suzy soffre una famiglia fredda e distante in cui la madre chiama i figli per cena con un megafono e il padre passa le sue giornate in soffitta o a tagliar legna. Legge libri fantastici e litiga con le sue compagne di classe e con i professori scatenando una rabbia che non sa da dove giunga.
Sono entrambi “emotivamente disturbati” ed è proprio questo disagio esistenziale ad accomunarli da subito e a spingerli verso la fuga. Finalmente hanno trovato qualcuno in cui riconoscersi, con cui edificare una sorta di normalità domestica fatta di letture davanti al fuoco fumando la pipa in una riproposizione post-infantile di un quotidiano da televisione. L’ordine adulto del campo e della famiglia li strapperanno dal loro nuovo mondo mentre il cielo minaccia una tempesta biblica.
Giunto al suo settimo lungometraggio Wes Anderson sembra sfidare i suoi detrattori proponendo alcuni temi classici della sua filmografia (la preadolescenza come momento costitutivo della persona, la solitudine, l’incomunicabilità) con la consueta messa in scena attenta alle geometrie ortogonali della macchina da presa, fatta di carrellate lente e colori saturi che hanno suscitato in alcuni, dopo Il treno per il Darjeeling, il sospetto di uno sterile manierismo formale declinante verso una ripetitività inappellabile. La sfida, o il gioco, di Anderson ha la sua arma segreta nella dichiarazione d’intenti che apre Moonrise kingdom: il disco didattico che i tre fratelli di Suzy ascoltano, nel quale viene illustrata la struttura della “Variazione e fuga su un tema di Henry Purcell” di Benjamin Britten, in cui il tema orchestrale portante viene scomposto nelle varie macro-sezioni strumentali (legni, ottoni, archi e percussioni) che eseguono ognuna una variazione sulla melodia principale per poi ricongiungersi in un finale collettivo. Così come l’opera di Britten, il film di Anderson inizia con una frammentazione delle unità esistenti (il campo scout, la famiglia di Suzy) per arrivare a una ricongiunzione finale, che culmina proprio con la riproposizione del disco, nel quale hanno finalmente spazio gli elementi solisti nel contesto orchestrale (l’ottavino prima, poi l’oboe e così via). In una visione metacinematografica, sono i singoli elementi della composizione filmica di Anderson – la simmetria registica, i cromatismi, la recitazione a tratti straniante e sotto tono – a declinare variazioni della melodia principale e a ristrutturarsi nella composizione finale.
Moonrise Kingdom non è, però, una semplice variazione sul tema Anderson. Ha un andamento quasi sinfonico, per rimanere in ambito musicale, in cui stili e registri si scambiano gradualmente con una fluidità e una compiutezza maggiore di altre prove del regista texano. Forse consapevole di una maturità raggiunta, Anderson si lascia andare ad azzardi scenici che in altre epoche avrebbero garantito il veto della censura, come la battaglia nei boschi tra scout e fuggitivi, con tanto di coltellate e cane abbattuto da una freccia (sembra quasi la caccia all’uomo di Rambo, il primo, quello vero), seppur mondata della violenza dello scontro, o l’approccio fisico preadolescenziale (che ricorda invece Laguna blu,sempre il primo, quello vero, anche se qui il discorso è diverso) tra i due protagonisti in riva al mare, che, pur culminando in un bacio alla francese, ha tutte le caratteristiche della scena d’amore adulta, inclusa la centralità del talamo, anche se in questo caso è una branda in una tenda.
Anderson si muove con cinefila ironia tra i vari generi, dal bellico al sentimentale al catastrofico, adattando i colori più che le riprese al mutare del ritmo della narrazione (il blu della tempesta finale, quasi un livido bianco e nero da film muto).
Alla sapienza registica si somma una scrittura, in coppia con Roman Coppola, capace di mostrare senza esporre, di far riflettere senza riflettere. Come per la centralità tematica della solitudine, ad esempio, unica forza, oltre alla purezza dell’infanzia, capace di avvicinare gli adulti, soprattutto lo sceriffo Sharp, ai fuggitivi, che si contrappone all’ottusità rigorosa dell’organizzazione e della collettività, concretizzata nell’aggressività iniziale degli scout, più un corpo paramilitare che un’associazione ricreativa, e nella come sempre algida Tilda Swinton, signorina Servizi Sociali che vuole portare Sam via dall’isola.
Il risultato finale è un film semplice e complesso allo stesso tempo, fruibile come puro intrattenimento ma pronto ad aprirsi a letture di vario grado, con un cast al di sopra della media (menzione per Willis e Norton) in cui i due esordienti protagonisti Jared Gilman e Kara Hayward si stagliano come consumati veterani.
(Moonrise Kingdom – Una fuga d’amore, regia di Wes Anderson, 2012, drammatico, 94’)
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