“Un favoloso bugiardo” di Susann Pásztor
di Gianluca Di Cara / 25 gennaio 2013
Duecento pagine che coprono un arco di tempo di appena due giorni in cui il passato e il presente si incontrano per aiutare i personaggi a trovare se stessi, uno stile fluido e divertente, un registro colloquiale ma non volgare, Un favoloso bugiardo (Keller, 2012) sembra scritto da uno di noi e dedicato a ognuno di noi. Al suo primo romanzo, Susann Pásztor si dimostra una piacevole scoperta letteraria, che ci regala anche qualche aforisma degno di nota.
Il favoloso bugiardo del titolo è Jósef Mólnar, detto Joschi, un uomo dalla storia nebulosa, di cui nessuno riesce a scoprire molto e che, passando da una donna all’altra, ha creato una progenie che poco sa di lui ma che con lui condivide una caratteristica, quella di saper creare intere storie da una manciata di informazioni per trovare – forse creare – la propria identità. Dopo essere stato internato in un campo di concentramento durante la seconda guerra mondiale, e dopo aver perso la moglie e due figli per mano dei nazisti, Joschi torna a vivere, a conoscere donne, a sposarle, a tradirle e a sfornare figli.
Sono proprio questi figli, anni dopo la sua morte, a riunirsi a Buchenwald in occasione di quello che sarebbe stato il suo centesimo compleanno, portando con sé Lily, la nostra narratrice, figlia di Márika e nipote di Joschi. Si forma quindi un quartetto che non potrebbe essere più diverso: l’appena citata Márika ha un passato molto disinibito, è una signora distinta ma spigliata, che vorremmo quasi conoscere nella vita reale; Hannah, invece, la immaginiamo come una donna semplice e castigata: come ferita dalle sofferenze del padre, è un’ebrea praticante, che sente ogni giorno in sé l’orrore dell’Olocausto e che cerca di onorare la memoria di chi vi è morto o di chi l’ha esperito; Gabor, il figlio minore, è riservato, silenzioso, non ha con le sorellastre il rapporto complice che invece Márika e Hannah condividono; Lily, infine, abile narratrice, è una curiosa senza pari, affascinata da questo zio silenzioso e da una storia familiare così oscura da poter essere plasmata quasi a piacimento.
A partire da quell’incontro, in cui inizialmente nessuno si sente a proprio agio, e che a tratti rivela tensioni notevoli, si cerca di ricostruire la storia di Joschi, un uomo che ha detto di sé tutto e il contrario di tutto: parlando del padre e della loro infanzia con lui, i figli iniziano a confrontare le informazioni in loro possesso, che quasi mai combaciano, narrano vissuti mirabolanti in cui l’ingegnosità del padre, un autentico favoloso bugiardo, li ha messi duramente alla prova. La capacità inventiva fuori dal comune di Joschi, a quanto pare, è genetica: con le informazioni contrastanti a loro disposizione, e con il poco che sanno effettivamente del genitore che hanno in comune, i quattro ricostruiscono la propria storia e plasmano la propria identità, aggiungendo pagine e pagine al nostro libro, che si fa via via più appassionante. «L’ignoranza non protegge mai», leggiamo, ma neppure ferisce. Hannah si è creata un personaggio dal forte sentimento religioso, si ritiene un’autentica ebrea, una vittima di seconda generazione dell’Olocausto, e non se la sente di verificare negli archivi di Buchenwald se il padre vi sia stato veramente internato o meno: se fosse stata solo una storia, l’ennesima bugia di un uomo dalle mille vite parallele, la sua intera esistenza perderebbe tutto il suo senso. Allo stesso modo, sui racconti di quest’uomo sorprendente, simpatico ma a dir poco ambiguo, si basano le vite di Márika e Gabor: ci ritroviamo di fronte una famiglia di attori che, in un certo senso, interpretano la vita per capirla, la narrano per trovare la propria collocazione, sono una specie di manifestazione pirandelliana alla disperata ricerca di una verità che, si renderanno conto, forse è meglio adattare a sé così da non rendere privo di senso tutto il proprio vissuto.
L’aspetto più positivo di questo breve romanzo è che i temi trattati – l’Olocausto, l’identità ebraica, la ricerca di una propria identità personale, ma anche la vita familiare in generale – sono narrati con semplicità, inseriti in un contesto tragicomico che mai scade nel ridicolo e che non si avvicina nemmeno una volta al dissacratorio. Márika, Gabor, Hannah e Lily sono personaggi molto vivi, le cui storie non sono un modo per riempire i buchi narrativi o per distrarre il lettore dalle eventuali incapacità o incoerenze dell’autore: al contrario, servono a rendere tutta la narrazione più concreta, più “veritiera”, seppur all’interno di un libro in cui la verità è decisamente relativa.
(Susann Pásztor, Un favoloso bugiardo, trad. di Fabio Cremonesi, Keller editore, 2012, pp. 217, euro 14,00)
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