“Il tempo della festa” di Furio Jesi
di Michele Lupo / 7 febbraio 2013
Il volume Il tempo della festa di Furio Jesi (1941-1980) contiene scritti «tra i più rari o tra i pochi ancora inediti» del germanista e studioso del mito e delle religioni. Così lo presenta Andrea Cavalletti che lo ha curato per Nottetempo.
Saggi che vanno da Pavese a Rimbaud a Rilke passando per Mann, Proust, Lukács al magister Kerényi con il quale si era da poco consumata la rottura. Vi si mostra più che altrove la complessità di pensiero di questo intellettuale dalla vita breve ma feconda di scritti; complessità che investe la scrittura, una peculiare forma-saggio e un pensiero problematizzato dalla necessità di stringere la sofisticata elaborazione teorica sul mito con l’aspetto politico. Siamo nei primi anni Settanta, i più penseranno non casualmente. Jesi va elaborando l’idea della “macchina mitologica”, che «allude all’esistenza del mito come origine, cuore che però resta nascosto dietro le parole della macchina stessa».
Se Jesi legge le Elegie duinesi di Rilke come pura parola sgombra da qualsiasi gravame di semantizzazione per farla così vibrare in un vuoto epifanico, e in Pavese, ossia in uno dei narratori italiani che nel Novecento più di altri intorno al mito ha ragionato, vede «l’impossibilità per l’uomo moderno di accedere a un’esperienza collettiva del mito», il saggio (una lettura del Bateau ivre), su Rimbaud, «profeta di una rivolta», compone una lezione sulla differenza fra rivolta e rivoluzione. La prima è assimilabile al tempo sospeso della festa, alla parentesi del tempo storico, a un principio “veritativo” che è anche distruttivo della ragione dominante; priva delle coordinate strategiche che presuppongono l’ipotesi di un altro tempo, futuro e ideale, com’è della seconda. Motivo bastevole per ridere del giudizio ingessato e appiattito su un presunto marxismo “duro” di Jesi, e tantomeno sufficiente per leggervi una banale apologia del sacrificio: dell’eroe-vittima. Tutt’altro.
Ché se l’ambizione di Jesi, fra altre, era quella di legare la riflessione sul mito alla prospettiva politica, nell’esplicito referto sulla menzogna della macchina mitologica era lecito accludervi una definizione della Cultura di destra (altro suo titolo ristampato dallo stesso editore romano) come di quella «in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari. La cultura in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto Tradizione e Cultura ma anche Giustizia, Libertà, Rivoluzione. Una cultura insomma fatta di autorità e sicurezza mitologica circa le norme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire». Laddove una critica della mitologia crede di poter rovesciare, nella rivolta del tempo della festa, la pratica autoritaria del dominio.
(Furio Jesi, Il tempo della festa, Nottetempo, 2013, pp. 230, euro 15,50)
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