“The Next Day” di David Bowie
di Alessio Belli / 25 marzo 2013
Un giorno durato dieci anni. Dieci anni di silenzio totale. Un silenzio così spesso e impenetrabile, da far perdere le speranze. Poi la sorpresa. Il regalo di compleanno dell’artista ai fan, al mondo della musica. E la storia ricomincia con un capitolo nuovo.
L’otto gennaio 2013 David Robert Jones, conosciuto da tutti come David Bowie, rilascia “Where Are We Now”, primo singolo (con annesso bellissimo video) del nuovo – inaspettato – album: The Next Day. Un vero e proprio shock: ascoltare dopo anni la voce del Duca Bianco che canta con tono spezzato e struggente: «Dove ci troviamo ora?», mentre nelle immagini del videoclip la Berlino tanto amata dall’autore passa in dissolvenza.
Il mondo della musica ha reagito di conseguenza, con fermento ed entusiasmo. Per non parlare degli affezionati che non aspettavano notizia più magnifica. Dopo il primo anticipo sonoro – sufficiente a scaldare gli animi – è arrivato anche l’anticipo visivo di The Next Day: la copertina del disco. Un apologia di reato – ovviamente musicale – in cui Bowie si permette di citare uno dei suoi lavori più immensi e celebri, capace di fare la storia della musica come pochissimi altri: Heros. Lo scatto è il medesimo, solo con il volto occultato dal riquadro bianco con impresso all’interno il titolo del nuovo disco. Una scelta forte, per molti quasi blasfema. L’autore della cover Jonathan Barnbrook ha dichiarato che la scelta è dovuta alla volontà di Bowie di sovvertire il passato, scardinare le certezze: quale modo migliore per farlo, se non usare l’immagine del disco più venerato? Intanto l’attesa cresce e il 28 febbraio esce il secondo singolo: “The Stars (Are Out Tonight)”.Pezzo più rock, con video altrettanto magnifico, e una partitura d’archi davvero notevole. Poi l’uscita del disco, e finalmente, il next day diventa il giorno in cui è possibile ascoltare l’album.
La preventiva freddezza, lo scetticismo e il sospetto cadono immediatamente. The Next Day non è un album nato da input commerciali o di vana gloria. La registrazione, lunga due anni, è avvenuta in segreto, supervisionata dal fedele Tony Visconti, che tra una take e l’altra, se ne andava in giro per New York, tentato di fermare tutte le persone con la maglietta di Bowie per dirgli che lui nelle cuffie aveva il suo disco di inediti. Aneddoti a parte, e considerando che ormai Ziggy Stardust ha quasi settant’anni, è bello percepire la vitalità del lavoro. A differenza delle opere della maturità di un Dylan o un Cohen, zeppe di nichilismo, pessimismo e morte, l’ultimo lavoro del Duca Bianco colpisce in primis per l’impatto vivo ed energetico.
Il trittico iniziale è una bomba: la title-track – dove l’artista afferma euforico il ritorno –, “Dirty Boys” e il già citato secondo singolo, sono il miglior biglietto di presentazione da mostrare alla critiche e ai fan che erano rimasti palesemente delusi – giustamente – degli ultimi lavori Heaten e Reality. Bowie non rinuncia al rock e lo fa senza mostrare il minimo segno di flessione vocale o compositiva. Gli arrangiamenti e i musicisti scelti per le canzoni – accuratamente selezionati tra i tanti nomi illustri con cui ha collaborato negli anni – danno a ogni traccia un senso autonomo e compiuto, dove niente è superfluo o stonato. Quattordici canzoni bellissime, dove spiccano i menzionati singoli, ma anche “Valentine’s Day” e l’onirico finale di “Heat”.
È giusto dirlo: non siamo di fronte all’epico. Scomodare capolavori totali come la Triologia Berlinese o Honky Dory, è fuori luogo. The Next Day dove essere visto in primis come un grande album, una testimonianza del valore immenso dell’autore, arrivato a questo punto della carriera con ancora molte cose belle da dire e da farci ascoltare. Un disco che chiude molti conti in sospeso e rende giustizia al Mito. Poi gira voce che questo sia l’inizio di un’altra triologia. Siamo pronti ad aspettare un altro Next Day.
(David Bowie, The Next Day, Columbia Records ISO Records, 2013)
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