“Figli dello stesso padre” di Romana Petri
di Anna Quatraro / 29 aprile 2013
Che uso fa il tempo del nostro rancore o della nostra felicità? L’ultimo romanzo di Romana Petri, Figli dello stesso padre (Longanesi, 2013), studia l’azione erosiva del tempo, implacabile e sorprendente, alla quale sottopone l’astio e l’orgoglio fra due fratelli.
L’esigenza di narrare, spiega l’autrice, è di riflesso legata all’illusione di poter ampliare il proprio tempo, esplorando una zona esistenziale, che pur intersecandosi con la propria biografia, si sbarazza del realismo. Affine alla classicità greca, la narrazione di Petri riflette un’unione fruttuosa, nel lessico e nei temi, fra quotidiano e trascendente e fra presente ed eterno, ponendo al centro del proprio interesse le passioni morali e affettive degli uomini, tanto che il primo manoscritto che una giovane e temeraria Romana Petri spedì a Giorgio Manganelli ricevette un giudizio molto positivo.
Prossimo ai cinquant’anni e all’apice della carriera artistica, Germano sente che è il momento di ricucire gli strappi che hanno costellato il rapporto con Emilio, il fratello minore. Figli dello stesso padre, Giovanni, insicuro ed egocentrico, i due hanno madri diverse: Germano è nato infatti dal matrimonio con la colta e smaliziata Edda, dalla quale Giovanni divorzia per Costanza, ormai incinta di Emilio, senza però interrompere le frequentazioni precarie e assidue con altre donne. Secondo l’adagio classico, sui figli ricadono le colpe del padre, incapace di garantire la propria presenza ai figli in modo costante e coerente. Così, a nove anni, Germano si è arroccato in un pesante rifiuto verso il fratellastro e la donna che accusa di aver sfasciato la sua famiglia, per quanto Edda abbia smentito la sua tesi, prima sposandosi con l’equilibrato Duarte, e poi appoggiando Costanza, che si era illusa della fedeltà di Giovanni.
Il temperamento molto diverso dei fratelli influirà sulle loro scelte di vita: il maggiore si è dedicato alla pittura, con la quale fronteggia il nichilismo e le frenesie estemporanee dei suoi legami con le donne. Da piccolo, ha convogliato tutte le attenzioni del padre su sé, riproducendo da adulto lo stesso esasperante squilibrio, bilanciato però dall’accortezza ragionata della madre, alla quale tiene molto. Edda è caparbia e sicura, e capace di ascoltare e consigliare il figlio e, nelle intenzioni di Petri, sul modello del coro femminile greco, si fa interprete dei sentimenti maschili. Da parte sua, Emilio pare aver sconfitto i complessi di inferiorità verso il padre e Germano grazie a una vita regolare, una moglie fedele e due figli amorevoli e otto anni di terapia. Fin da ragazzo ha scelto di studiare con abnegazione, prima laureandosi a pieni voti in matematica, poi lavorando in atenei prestigiosi fino alla cattedra a Pittsburgh. Tuttavia, Emilio, invitato a Roma alla mostra di Germano, non potrà sottrarsi al richiamo del sangue ed è il più determinato a cercare la rappacificazione.
Il conflitto tra i due fratelli orienta la narrazione verso una galleria di ricordi familiari teneri, burrascosi, malinconici che alternano le prospettive dei due personaggi, attraverso i quali Petri crea una polarità vivida e commovente fra dionisiaco e apollineo, istinto e prudenza, in un percorso di reciproca agnizione esaltato dalla scrittura precisa e raffinata e dal timbro tragico, fino alla catarsi, senza smagliarsi. Un solo appunto: il capitolo sulla mostra ha una qualità nettamente superiore, che al contrario sbiadisce in certi afflati psicologici, solo in parte riscattati dai dialoghi.
(Romana Petri, Figli dello stesso padre, Longanesi, 2013, pp. 297, euro 16,40)
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