Playground: a tu per tu con Andrea Bergamini
di Dario De Cristofaro / 31 maggio 2013
Concludiamo la nostra panoramica sulla casa editrice del mese intervistando il fondatore e attuale direttore editoriale di Playground, Andrea Bergamini.
Se penso alla parola inglese playground, mi vengono in mente i campi da basket di strada che si incontrano nelle grandi metropoli americane. Perché la scelta di questo nome per una casa editrice? Che significato ha per te questa parola?
Sono molto legato alle metafore sportive. Le vite, le esperienze, persino i gesti tecnici dello sport mi sembrano incarnare e rappresentare con immediatezza le difficoltà e le euforie delle nostre vite. E il playground, cioè il campo di basket di strada dove i ragazzini americani giocano fin da bambini, è un luogo di competizione ma anche di amicizia, dove le squadre si mescolano con il trascorrere delle ore, dove a volte le regole sono forzate, dove si comincia a sognare in grande, così come molti di noi hanno cominciato a fare sui campetti di calcio, da bambini. Mi sembra insomma esprimere l’imprevedibilità e la ricchezza di vita che è tipica della narrativa: ci si incontra, si gioca, ma nulla è deciso prima. Per questo ho scelto questo nome per la casa editrice. A questa ragione aggiungerei anche la consapevolezza che avrei pubblicato soprattutto narrativa nordamericana, e quindi la volontà da subito di evocare quell’universo culturale di riferimento.
La casa editrice, chiaramente di progetto, nasce con l’intento di diffondere la letteratura gay. Intento che negli ultimi anni è rimasto invariato per la collana High School – pensata per i giovani adolescenti alle prese con le difficoltà di riconoscersi e di essere riconosciuti omosessuali – mentre sembra assopito per la collana principale, che da qualche tempo ospita anche autori e personaggi etero. Qual era la volontà iniziale e quali gli scopi? E riguardo alla collana principale, cosa ha portato a questo cambiamento, se tale può essere definito?
Per letteratura gay di solito si intende narrativa prodotta da gay e indirizzata esclusivamente a gay. Penso che del nostro catalogo solo la collana High School coincida con questa definizione. Parliamo di una collana indirizzata soprattutto agli adolescenti gay, con storie ambientate nei licei. Sono libri senza particolari ambizioni letterarie, che hanno scopi anche pratici, come quello di alimentare l’autostima nei ragazzi gay che magari vivono l’adolescenza con difficoltà.
Penso, invece, che nessun libro della collana principale di Playground risponda alla definizione che di solito si dà di letteratura gay. Lo stesso Edmund White, presente nel nostro catalogo e considerato il padre della letteratura omosessuale moderna, e che come tutti gli autori americani non ha alcun timore snobistico di appartenere a minoranze culturali, non avendo una concezione universalistica della letteratura, è ben lontano dal rivolgersi a lettori esclusivamente gay. Dal dialogo con i colleghi americani di White e con i suoi lettori, anche italiani, mi sono accorto che della sua narrativa colpisce soprattutto la stupefacente vocazione alla verità unita allo stile. È questo che spinge autori come John Irving o Joyce Carol Oates a leggere con ossessiva costanza White, e non solo quindi l’interesse, che pure c’è, per un segmento di storie e di vite americane legate alla comunità gay.
I libri Playground si differenziano per cura grafica – la copertina pulita e le pagine interne tendenti al color sabbia – e per la qualità dei contenuti – tra gli autori pubblicati spiccano Edmund White, Allan Gurganus e Gilberto Severini. Come scegli i libri da pubblicare? Quanto conta la politica del recupero?
Io credo naturalmente, senza forzature teoriche, in quello che la nouvelle vague aveva definito come «politica degli autori». Truffaut, di fronte alle stroncature spocchiose di film di grandi registi, ricordava che i film, più o meno riusciti, di autori autentici sono ipotesi di bellezza più interessanti, esprimono visioni del mondo e dell’arte meno convenzionali, di film cosiddetti riusciti di registi mediocri.
Per questo noi non siamo ossessionati dalla “novità” e amiamo pubblicare anche titoli datati di autori che consideriamo rilevanti.
La politica del “recupero” consente tra l’altro il vantaggio di stabilire con maggiore serenità il valore di un’opera. Il tempo non è un fattore decisivo, ma può aiutare a comprendere pregi e qualità dell’opera. Il libro “dimenticato” permette di avvicinarlo con più lucidità, senza l’ansia dell’agente letterario che ti impone scadenze o della competizione fondata su tempismo e denaro. È chiaro che il lavoro del direttore editoriale si svolge anche nella dimensione di un presente frenetico, ma il libro ha tempi e durate che spesso sono più lunghi ed è bene non dimenticarlo.
Con la pubblicazione di Emidio Clementi e di Tijana Djerković – autrice serba che però scrive in italiano –, che si vanno ad aggiungere al nome di Gilberto Severini, è possibile dire che Playground ha iniziato a guardare anche alla narrativa italiana, finora poco considerata?
Sì, credo si possa dire, ma con grandi cautele.
Con DietroLeQuarte proviamo a entrare in maniera più approfondita all’interno di una casa editrice, cercando di capirne il progetto, i diversi ruoli, le persone che con il loro lavoro quotidiano “fabbricano” i libri. Come è strutturata Playground? Chi ti affianca, aiutandoti nel difficile compito di “dare vita” ai libri?
La casa editrice conserva “modi di produzione” artigianali. Io svolgo il ruolo sia di amministratore che di direttore editoriale, e partecipo a tutti i processi in cui è coinvolta la produzione e cura del libro. Da ragazzo ero rimasto molto colpito dallo scoprire che, unico tra i grandi registi, Ermanno Olmi continuava a fare l’operatore dei suoi film, oltre che il regista e il montatore. Per Olmi era essenziale esercitare quelle forme di controllo, e credo che lo sia anche per me nel lavoro di editore. Nel mio caso c’è anche una ragione pratica (oltre a quella editoriale ed estetica) che è data dai minori costi. Mi faccio comunque affiancare sempre da un correttore di bozze, e nel processo di comunicazione dei libri da un ufficio stampa. Poi c’è l’art director, Federico Borghi.
Insomma, una struttura leggera e ridotta.
Per concludere una domanda canonica: ci puoi indicare i tre titoli Playground che hai amato di più in questi nove anni da editore?
Impossibile. Credo di avere sbagliato qualche titolo, nel senso che con il passare del tempo mi è sembrato meno rilevante, ma sono tantissimi i titoli del mio catalogo che continuo ad amare quasi allo spasimo. Sceglierne tre non mi è davvero possibile. Mi piace però ricordare un titolo che trovo di una bellezza inaudita e che non ha avuto la fortuna che meritava. Si tratta di una raccolta di racconti dello scrittore irlandese Desmond Hogan, dal titolo L’ultima volta (traduzione di Gaja Cenciarelli). Ho ancora netto il ricordo del piacere e dell’emozione provati mentre li leggevo in originale. Desmond Hogan è considerato uno dei riferimenti principali della letteratura contemporanea irlandese. È venerato come un maestro da Colm Tóibín e Colum McCann, oltre che dallo scrittore-regista Neil Jordan. I suoi racconti delineano un’Irlanda non convenzionale, spesso violenta, ma che si riscatta con scorci di paesaggio originalissimi e raccontati con stile autenticamente lirico. Secondo me ogni “lettore forte” dovrebbe confrontarsi con questo autore.
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