“Nel regno dell’Ade”: a tu per tu con Edoardo Vitale
di Davide Di Poce / 1 giugno 2013
Nel regno dell’Ade (Ensemble, 2013) è la raccolta di poesie di un esordiente, Edoardo Vitale, che potete incontrare nelle sue prove narrative e giornalistiche, su concimalatesta.it.
Come in un momento di trance, di improvvisa rabbia o perdizione, l’autore ri-versa le sue parole sulla pagina, officina bianca. Difficile si rivela il rapporto con la parola che, nel tentativo di significare esattamente, si deforma e diviene monstrum: la parola diventa un centauro. Forse deriva da un sentimento di sfiducia verso le sue potenzialità, questo balbettare. Oppure ha ragione Lacan, laddove dice che solo quando balbettiamo siamo autenticamente noi stessi.
Tuttavia, la poesia di Vitale non è un mero gioco linguistico. Annunciato fin dal titolo è il tema della distruzione che troviamo, per esempio, nel componimento che dà il titolo alla raccolta, dove aggregazione, collisione e disgregazione si intrecciano con un riferimento di stampo lucreziano piuttosto vago. Tuttavia, nei versi 16 e 17 della stessa poesia, possiamo interpretare «collisione», che significa etimologicamente «disgregarsi insieme», anche come una felice metafora amorosa. Infatti, a differenza di quel che fa intendere il titolo, Nel regno dell’Ade, il tema centrale del libro non è la morte, ma l’amore: amore come tensione universale, forza creatrice, alma Venus, e come sensualità, attaccamento rapace ai sensi. Nel libro si sente un’eco ancestrale, un sapore dolceamaro che nasce dalla commistione di antico e moderno. È straniante, infatti, il puntuale riferirsi a varie divinità: agli dèi in generale, per giunta con la lettera maiuscola, a Inanna, dea della femminilità sumera, a Hi’iaka e Namaka, figure della mitologia hawaiiana.
Abbiamo approfondito il discorso in compagnia dell’autore:
Edoardo, nel tuo libro è come se l’antico fosse traghettato nella contemporaneità della tua poesia, che non tratta certamente temi antiquati né ha forme classiche.
È vero. Ho cercato di metterlo nelle mie poesie. Per me è una regola di vita riferirmi al mondo classico. Oggi, infatti, si commette un errore: o si è tutti proiettati verso il futuro, rinnegando anche le cose buone del passato, o si resta tutti chiusi nel classico e nelle vecchie dinamiche, non solo a livello poetico, ma anche in molti aspetti della società di oggi. I classici devono essere dei punti di riferimento, ma poi bisogna interpretarli, conviverci parallelamente, non riprenderli così come sono.
Nel libro c’è molto paganesimo: al di là del titolo, Dafne, i miti hawaiani, la Venere sumera, Inanna. Sei un neopagano?
No. La mia non è una visione solo pagana né solo cristiana, è eterogenea: prendo il buono da tutto. Poi certo, non sono un fan della Chiesa.
Perché? Qual è il tuo rapporto con il cristianesimo?
Non mi sento cristiano, mi sento occidentale. Essendo occidentale, non posso non essere stato influenzato dal cristianesimo. Ma questo non ha niente a che fare con la Chiesa e il suo valore politico. Il cristianesimo che oggi ha preso una certa piega (quella delle manifestazioni a favore della famiglia, ad esempio) non mi piace; poi certo, penso che la figura di Cristo sia molto importante.
Nei ringraziamenti si legge il nome di Adele, «senza la quale nulla sarebbe stato possibile». C’è un legame tra questa persona a te cara e il titolo del tuo lavoro, con cui sembra sia assonante, Nel regno dell’Ade?
Sì, «Ade» vuol essere anche l’abbreviazione del nome di Adele. Adele è una persona importante nella mia vita, che ha dato una secchiata di benzina su questo fuoco che è la mia passione per la scrittura. Con il suo nome ho voluto giocare proprio perché molto di quello che c’è scritto nelle poesie è dedicato a lei o ispirato da lei.
Infatti il libro è percorso da una tensione amorosa molto forte, a dispetto di quello che potrebbe indicare il titolotout court. Si tratta di un amore particolare, sensuale, ma anche di amore inteso come impulso universale.
L’aspetto erotico è molto marcato, perché nell’Ade ci va chi ha commesso gravi peccati e, nel mio discorso, sono proprio peccati d’amore. Questo aspetto non va visto solo come una questione di coppia, di rapporto sessuale, ma anche come un’interpretazione della vita: tutti siamo mossi da certi istinti che sono legati alla sessualità.
Nel libro c’è un impulso verso l’amore, ma anche verso la distruzione. Nella biografia di quarta di copertina si legge che sei «con un piede nella realtà e con uno nello sconforto causato da quest’ultima». Il regno dell’Ade è anche la quotidianità?
Lo è eccome, grazie della domanda. Questo è un punto molto importante. Io sono molto critico e sconfortato verso il genere umano: con questo libro volevo che, in qualche modo, trapelasse.
La nostra è una generazione che non ha nulla. Abbiamo molti input a livello musicale e letterario, ad esempio, ma che durano una settimana e poi svaniscono. Penso davvero che questo sia il regno dell’Ade, perché non c’è più nulla. Ad esempio, si dice che siamo la prima generazione che non avrà i privilegi di quella precedente; è una sfortuna, certo, ma noi ce ne stiamo approfittando tantissimo: siamo sfortunati, poveri noi, non troviamo lavoro, quindi abbiamo una scusa per non fare niente. Al massimo, ci buttiamo in discoteca. Nel regno dell’Ade noi un po’ ci sguazziamo.
Come epigrafe al libro c’è un brano tratto da Un uomo che dorme di Georges Perec. C’è legame tra il protagonista di Perec che, sfiduciato, fa esercizi di atarassia, e questo tuo discorso?
Ci sono giorni in cui sono come quel personaggio, atarattico, cinico, sfiduciato verso il mondo, e c’è un lato di me che invece resiste e spera, che porta avanti degli ideali: ad esempio sono vegetariano. Non potrei mai rinunciare a nessuno dei miei due aspetti. Diciamo che tiro i remi in barca a giorni alterni.
Ci sono tre poesie dedicate a Bologna. Perché proprio questa città? Inoltre, in una c’è il riferimento alle scosse sismiche: è un ricordo dell’ultimo, devastante terremoto dell’Emilia?
Ho scritto queste poesie tra Roma e Bologna. A Bologna non ero mai stato prima e ho provato nei suoi confronti un sentimento di amore e odio, che in realtà caratterizza tutti i miei veri amori.
All’inizio mi sembrava una gabbia dorata, un cliché vivente, e anche il simbolo di una sconfitta. Restavano i vecchi luoghi comuni degli anni Sessanta e Settanta, che oggi non ci sono più e che spesso ci ostiniamo a voler ritrovare. Ma poi mi sono ricreduto ed è stata una città che ho vissuto e che ricordo con amore.
Il terremoto presente in una poesia, a dire il vero, fu una scossa precedente a quelle grandi che hanno causato la tragedia dell’anno scorso, quando ero ormai già tornato a Roma. Ho voluto tenerla perché è come se in quella poesia avessi anticipato eventi che poi sarebbero diventati più catastrofici.
Il tuo rapporto con la parola è difficile: sembra che la parola nel tentativo di dire, si deformi, ripiegandosi in se stessa, senza forze. Questo rende la tua scrittura molto oscura.
In realtà quando mi metto a scrivere mi viene spontaneo buttarla sul flusso di coscienza, perché sono un appassionato di esistenzialismo. E poi, come posso pretendere io che non sono nessuno, di riuscire a cogliere il bersaglio in pieno e a dire esattamente quello che sento?
Quindi c’è una sfiducia nei confronti della parola?
No, in realtà c’è un grande amore. C’è un senso di affetto come quando vuoi anche un po’ tutelarla, la parola. Non le chiederei mai di sottoporsi a uno stress eccessivo, dandole tutta la responsabilità di rendere un’immagine o un concetto. Certo la parola ce la può fare. Ma è un sacrificio. I grandi sacrificano la parola. Io preferisco di no.
Il lavoro sulla punteggiatura mette in evidenza il diverso significato che assumono i versi che si susseguono. È come se volessi sottolineare la precarietà dei significati, attraverso gli slittamenti semantici dei versi, come colto da lapsus.
In effetti è proprio così. Sono un appassionato della glitch art, tecnica che consiste nell’alterazione digitale dei bit di immagini e fotografie; nasce nella musica elettronica sperimentale e poi è portata nella fotografia, nei video. Sembrano degli errori, foto venute male, distorte.
Inoltre, soffro di attacchi di panico e di stati d’ansia più o meno profondi che sono stati anche molto forti nel periodo in cui ho scritto il libro. Quando sprofondavo nelle crisi subivo una distorsione dei sensi: all’improvviso mi mancava l’udito, non ci vedevo più. Anche per le mie poesie è così: vedi le immagini, ma le vedi distorte; si capisce il soggetto, ma è molto vago perché la voce che racconta è disturbata. Ecco, le mie poesie sono come un attacco di panico.
(Edoardo Vitale, Nel regno dell’Ade, Edizioni Ensemble, 2013, pp. 54, euro 10)
Comments