“To the Wonder” di Terrence Malick
di Francesco Vannutelli / 2 luglio 2013
Accolto con perplessità a Venezia, To the Wonder è il nuovo capitolo della ricerca di Terrence Malick sull'uomo in uscita il prossimo 4 luglio.
Neil e Marina si amano a Parigi. Lui è inquieto, lei è felice e lo è anche la figlia di lei Tatiana, avuta da un matrimonio di gioventù. Quando Neil decide di tornare in Oklaoma, al suo lavoro di operatore ambientale, le due lo seguono. Provano a essere una famiglia, ma non va. Neil non vuole impegnarsi, Marina lo sente sempre più distante e Tatiana soffre un mondo non suo. Quando il visto della donna scade, senza la promessa di un matrimonio davanti, madre e figlia decidono di tornare in Francia. Neil torna a frequentare per un breve periodo un’amica della sorella. Di nuovo, quando l’impegno si presenta, lui si sottrae, finché Marina torna e decidono di provare la strada del matrimonio.
La trama di To the Wonder, in sé, ha una rilevanza secondaria rispetto alle tematiche che lo alimentano. Come nel precedente e acclamatissimo The Tree of Life, Malick sfrutta un’intuizione narrativa per portare avanti un discorso più ampio sul tema che maggiormente appartiene al suo cinema: l’amore e le sue conseguenze sulla vita degli uomini, sulla loro solitudine di fronte all’altro, sull’incomunicabilità di un sentimento necessario e determinante.
In To the Wonder la poetica di Malick («Il più grande poeta della mia generazione», lo ha definito Michael Cimino) prosegue la propria ricerca su se stessa da dove si era interrotta in The Tree of Life: il flusso narrativo si frammenta ulteriormente in sequenze distaccate illuminate da lampi di ricordi e dal respiro di immensi paesaggi; i dialoghi, già rarefatti, spariscono del tutto. I personaggi non dialogano, monologano senza rispondersi, affidando alla classica voce fuori campo del cinema malickiano considerazioni di ogni tipo sulla vita, sull’amore, su Dio. Ognuno parla la propria lingua: Neil (Ben Affleck) inglese, padre Quintana (Javier Bardem), prete inquieto a cui Neil e Marina si rivolgono separati per cercare risposte, spagnolo, Marina (Olga Kurylenko) francese, Anna (Romina Mondello, abbondantemente fuori parte), amica e coscienza malvagia e zingara di Marina, italiano. È una babele di incomunicabilità, di isolamento e solitudine. Gli uomini non sanno più parlare tra loro, non sanno più parlare con la terra, capirne le esigenze e i bisogni, non si rendono più conto di esserne un elemento, di essere in balia dei suoi cicli.
Il legame tra natura e vita umana è indissolubile, scandisce i tempi dell’unione di Neil e Marina, che perde di purezza nello stesso momento in cui Neil scopre una pozza d’acqua contaminata, che si rompe quando scade il visto di Marina e le orchidee nella loro casa perdono l’ultimo petalo, che si riconcilia mentre i fiori sbocciano. L’amore è come la marea che lega Mont Saint-Michel che i due visitano a inizio film alla costa normanna, la forza che rende l’uno due, poi di nuovo uno, poi di nuovo due, in un ciclo invincibile. È la tensione verso cui l’uomo è costantemente proiettato, sia essa verticale, verso il Dio che padre Quintana ricerca senza speranza, sia orizzontale verso la donna o l’uomo amato. È una pulsione che schianta ed eleva allo stesso tempo, che è catena e chiave per la libertà. Quello che accomuna le due spinte è la necessità di un’interposizione, di un oggetto mediano che concili il soggetto con l’oggetto e sia sintesi di una dialettica inesauribile: Quintana ha bisogno di Dio per riuscire ad amare pienamente i miserabili che assiste, Neil e Marina hanno bisogno di un figlio, Tatiana o uno loro, per unirsi per sempre, o di perdersi in altri amanti per sentire il bisogno di ridurre le loro distanze. È la Marina di Olga Kurylenko il personaggio maggiormente a contatto con la natura, spirito aggraziato e libero che incarna un’idea di amore infantile e animalesco, fatto di spontaneità con gli uomini e la terra, di passeggiate a piedi nudi e di ammirazione costante, bisognosa delle attenzioni di un uomo incapace di affettività che la lascia sfiorire.
Il cinema di Malick è un cinema di luci e paesaggi e di riflessione, da sempre. Dopo i vent’anni trascorsi tra I giorni del cielo e La sottile linea rossa, sembra che ora il regista texano abbia molto da dire e abbia fretta di farlo (ha in cantiere tre nuovi film, pare, il primo, Knight of Cups, in uscita negli ultimi mesi del 2013). Assodata una squadra (Emmanuel Lubetzki alla fotografia, il montaggio, essenziale nella sua forma espressiva, guidato da Keith Fraase), Malick prosegue la sua ricerca sull’uomo e sul mondo. In To the Wonder non riesce a raggiungere il lirismo lancinante di The Tree of Life, ma la meraviglia verso cui tende è molto vicina.
(To the wonder, di Terrence Malick, 2012, drammatico, 112’)
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