“Il nome della rosa” di Umberto Eco
di Laura Porceddu / 13 luglio 2013
Niente è come sembra. Questa potrebbe essere una definizione fedele, seppur scarna, di Il nome della rosa di Umberto Eco. A prima vista sembra un giallo storico, ed effettivamente lo è, perché Guglielmo di Baskerville – è chiaro il riferimento a Il mastino di Baskerville di Conan Doyle, ma l’omaggio non finisce qui –, francescano inglese ed ex-inquisitore (pentito), e il suo allievo Adso, novizio benedettino di origine tedesca, indagano su una serie di omicidi nell’abbazia benedettina in cui si trovano per altri motivi (presto arriveranno le delegazioni papale e francescana per discutere, in vista di un successivo incontro ad Avignone, della difficile questione della povertà di Cristo, della Chiesa e dell’ordine dei Frati Minori). Peccato che poi la soluzione dell’enigma non porterà all’individuazione dei colpevoli, come invece accade normalmente in un giallo.
Ma Il nome della rosa non è solo un giallo storico, perché è anche un’opera di interpretazione. L’autore vuole raccontare il (suo) Medioevo, e ne descrive un periodo (non il suo “preferito”) di transizione, di tensione tra il conservatorismo che è conosciuto come più tipicamente medioevale e un pensare più “moderno”, che in realtà è ancora, come specificherà qualche anno più tardi lo stesso Eco, profondamente medioevale. E per spiegare questo suo Medioevo non sceglie una narrazione in terza persona, con cui poter facilmente giustificare le lunghe digressioni didascaliche, ma preferisce invece affidare la narrazione all’Adso ormai anziano, che tuttavia, da tedesco, si ritrova a dover spiegare la complicata, a suo dire, situazione italiana.
E grazie ad Adso quale voce narrante l’autore rende evidente la sua passione per il Medioevo: ne nasce un’opera dal gusto medioevale, frutto di un lungo studio delle cronache del periodo per cercare di imitarne lo stile, arricchita non solo di lunghi elenchi e numerose citazioni in latino, ma anche di continui riferimenti a opere del periodo, tanto che, per esempio, la scena di sesso nella cucina viene costruita con un collage di testi di mistici medioevali.
Benché la storia sia ambientata nel Medioevo, Eco non dimentica il presente, così da lasciar trasparire, tra le righe, le analogie con la situazione italiana degli anni Settanta, paragonando i moti di rivolta medioevali con il terrorismo di quegli anni. E poi si sa che tutti i problemi dell’Europa nascono nel Medioevo, così come quell’incertezza, del tutto italica, nei confini tra potere religioso e potere secolare, aspetto che certo non rimane nascosto in un romanzo ambientato nel pieno della cosiddetta “cattività avignonese”.
E infine, vexata quaestio, il film diretto da Jean-Jacques Annaud, è meglio o peggio? Nessuno dei due. È un’altra cosa. Se visto senza un diretto collegamento al libro, il film apparirà certamente ricco e interessante, anche se a volte tralascia di spiegare alcune cose. Se invece lo si prova a guardare poco dopo aver letto il libro (e lo sconsiglio vivamente), potrebbe suscitare un certo fastidio, perché si perde totalmente la ricchezza costruita nel mondo e nei personaggi di Eco, oltre a unaparte del significato dell’opera. In fondo, quindi, si tratta di due cose diverse, e non è un caso che il film sia «tratto dal palinsesto del Nome della Rosa di Umberto Eco».
(Umberto Eco, Il nome della rosa, Bompiani, 1980)
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