“Teoria imperfetta dell’amore” di Scott Hutchins

di / 27 settembre 2013

Un uomo di trentasei anni, Neill Bassett, dall’identità sfuocata, nascosto dietro la brillante patina di un lavoro sicuro. La corsa verso una delle creature più malsane della tecnologia: un software che sia in grado di riprodurre le emozioni umane per dar conforto alla solitudine inderogabile degli uomini moderni. Ecco le coordinate essenziali di Teoria imperfetta dell’amore di Scott Hutchins (Einaudi, 2013).

Neill vive un’innocua liaison sentimentale con Rachel, una parentesi nella sua condizione di scapolo, dopo il divorzio con la prima moglie. Su questo, si inserisce il tema della storia che riguarda Neill in prima persona. Il nostro lavora infatti con un manager visionario, Livorno, suggestionato dal principio di Alan Turing, secondo il quale si può creare un computer con caratteristiche umane che gli permettano relazioni affettive. Per realizzare questo imponente progetto di glottologia informatica, Livorno ha utilizzato i diari del vecchio padre di Neill, suicidatosi quando il figlio iniziò il college.

L’idea, ben esposta dall’esordiente Hutchins, avvolge in maniera convincente le vicende lavorative del protagonista, assunto con il compito di perfezionare il software che Livorno e i suoi devoti collaboratori hanno ideato: un lavoro che diventa a poco a poco un percorso di autoanalisi. Questo porterà il figlio a confrontarsi con i periodi oscuri della vita del padre, la morale cattolica tradizionalista dell’Arkansas, il mito grottesco della Silicon Valley, dove il tecnico informatico si adatta alle aspirazioni misere e reali di altri colleghi scapoli. Dietro la crudezza delle riflessioni sulla solitudine che incalza le giornate di Neill e dei suoi amici, emergono abitudini amare e la tendenza a osservare il mondo senza aver chiara la propria direzione. Quando lo struggimento e la lieve considerazione delle proprie vicende esistenziali si uniscono all’idea kerouakiana che tutto sta andandosene in un delicato e grandioso stillicidio di tempo, allora ecco che Neill prende la decisione di credere fino in fondo al progetto di Livorno e di vivere la relazione con la giovane Rachel, conosciuta in una pensioncina a San Francisco.

La sensazione finale è che l’autore si prenda la libertà di raccontare più dell’essenziale, perché le 408 pagine di Scott Hutchins trasmettono sì il peso allarmante dell’inquietudine dei suoi personaggi, sforzandosi di inseguire le vicende dei personaggi minori, ma si scontrano anche con un lirismo piacevolmente artefatto degli stati d’animo: «Ogni periodo della vita ha la sua geografia. Io ho avuto le mie peregrinazioni. […]. Ora ho ristretto il cerchio d’azione: San Francisco, Dolores Park, le rarefazioni della linea J, la città che sale e scende».

La storia coinvolge quindi grazie all’ironia e al modo in cui sono espressi gli umori di Neill, alla capacità di intuire i risvolti pseudoavveniristici delle applicazioni informatiche, coesi da una ciclica prevedibilità e una visione del rapporto padre-figlio un po’ stucchevole: l’uno insegna, l’altro corregge la sua prassi, chissà se anche il padre è stato così bene. Ciò non toglie che c’è una sottile capacità di far trasparire nella lucidità dei dialoghi lo scarto fra l’inglese del protagonista e l’inglese che non è giusto chiamare meticcio, aspetti linguistici che la buona traduzione di Marco Rossari rende in modo agevole e preciso, anche se il titolo italiano è un po’ diverso dall’originale, A Working Theory of Love.

(Scott Hutchins, Teoria imperfetta dell’amore, trad. di Marco Rossari, Einaudi, 2013, pp. 408, euro 19)

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