“Gravity” di Alfonso Cuarón
di Iacopo Accinni / 4 ottobre 2013
Dopo aver ricevuto una buona accoglienza alla 70ma edizione della Mostra del Cinema di Venezia, Gravity, il nuovo lungometraggio di Alfonso Cuarón (I figli degli uomini, Harry Potter e il prigioniero di Azkaban), arriva nelle sale con tutte le carte in regola per essere un successo hollywoodiano ai botteghini. Ovviamente sempre rimanendo con i piedi ben saldi a terra e prendendo le dovute distanze da chi lo definisce, come James Cameron, «il piu grande film mai realizzato sullo spazio dopo Kubrick». È un film sicuramente coinvolgente, un soffio al cuore lungo una vertiginosa montagna russa orbitale, un avventura visiva che tiene incollati alle poltrone. Ottimo è il dosaggio di suspense e angoscia. Gravity è il blockbuster, made in USA, di questa fine 2013.
L’assunto è semplice. Sandra Bullock, giovane recluta dello spazio, a seguito di un incidente avvenuto sulla stazione spaziale internazionale (ISS) inizia dapprima a volteggiare (la sequenza è frenetica al punto giusto, da mozzare il fiato) per poi finire alla deriva totale nello spazio. La terra è sempre lì davanti, in tutto il suo splendore e allo stesso tempo irraggiungibile. Ed è qui che la voce di George Clooney (il vecchio cowboy del cosmo) si fa intensa e consolatoria, ancora di salvataggio, unico appiglio di speranza. Ed ecco che una normale missione di routine, alquanto banale, rapidamente si trasforma in incubo. Soli, nel nulla, con il lato più oscuro e nichilistico della nostra stessa mente.
È un film che riesce a essere allo stesso tempo spettacolare e sperimentale, nel quale noi spettatori veniamo coinvolti attraverso una serie di virtuosi piani sequenza. È un ballo frenetico e silenzioso fatto di gesti tra due cosmonauti che gravitano sospesi nello spazio, alle loro spalle sempre tetro e oscuro. La vertigine viene data dal senso di infinito e di impotenza dell’uomo. La telecamera è onnipresente e rotea su se stessa continuando a passare di mano in mano, da un personaggio all’altro. In una sinfonia vorticosa tra movimenti e respiri, sempre più corti e affannosi, si percepisce un senso di sospensione e ansia.
La trama scorre seguendo il tentativo, quasi disperato, dei due astronauti di raggiungere una stazione spaziale orbitale, il tempo scandito dalla riserva d’ossigeno che i due posseggono, destinata inevitabilmente ad esaurirsi. È proprio qui, su questa lotta per la sopravvivenza e nell’empatia che si viene a creare tra due esseri umani, che Cuarón ha incentrato la sua visione ed il suo credo di speranza. Basta una frattura e tutto svanisce. Obbligati ad aggrapparsi l’uno all’altro, Gravity si fonda su di un semplice cordone ombelicale tessile che li unisce. La minaccia di una possibile rottura è sempre imminente. Con questo film, il regista viene a definire, in un modo fuori dal comune e immaginario, una tensione sempre presente, leggermente romanzata, del rapporto di coppia. Si tratta comunque di una buona allegoria sulla fiducia e sul senso stesso dell’essere umani, uniti dalle stesse necessità vitali.
Il tutto però è ostacolato da una particolare carenza di scrittura e sceneggiatura. Il film cade presto nella ovvietà, nel pomposo e sentimentale. Il ritmo incalzante svanisce rapidamente, in particolar modo quando la scena viene pervasa da un simbolismo grossolano e fetale, con lo spazio visto come un immenso contenitore di liquido amniotico. Sicuramente, rimane un buon film, destinato alla solita scorpacciata di premi Oscar per i diretti interessati, interpreti ed effetti speciali.
(Gravity, di Alfonso Cuarón, 2013, fantascienza, 91’)
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